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Storie di vita

Una giornata a Milano. Storia confusa di partenze e ritorni

1° tempo

La città è sempre quella… la stessa, mi avvolge senza soffocarmi, in un abbraccio che protegge ma che lascia spazio ai raggi del sole, per passare e dare luce e calore. Mi accoglie con i suoi colori e i suoi odori che mi trasportano indietro negli anni, mi fanno correre su un filo che cuce il tempo e mi riporta dentro una libertà che non pensavo più, che non ricordavo più.

Cammino dentro le vie della stazione e ogni immagine mi parla e mi racconta, di sé, di me e di tutte le persone che l’hanno guardata o che l’hanno composta e così il rumore dei passi…i miei e quelli degli altri, le mie scarpe e quelle della ragazza al mio fianco o del signore elegante con il trolley che si affretta a salire sulle scale… forse un treno da prendere.

Che poi alle stazioni, guardando la gente che prende i treni, mi sono sempre domandato se per loro contasse più la partenza o l’arrivo, e oggi dopo più di quindici anni lontano da una stazione, la prima domanda è ancora la stessa…certe cose non cambiano, mai.

La città non cambia, con la sua discrezione che può diventare indifferenza e con la sua aria, che la fa unica, l’aria si impregna degli odori della città in cui si muove e questo la rende unica e diversa in ogni luogo, solo il visitatore attento, chi vive i luoghi, se ne accorge, eppure è così…l’aria racconta la città e quella che sto respirando è l’aria della mia. La riconoscerei anche se fossi cieco e ne potessi solo annusare il vento…

Ci sono cresciuto, ci sono nato ed è l’ultimo pezzo di vita vera che ho salutato prima del viaggio degli ultimi quindici anni.

Ora sono qui… percorro la strada che mi separa dalla mia meta, mi fermo e faccio colazione, due volte, perché una non basta, la mia è una fame diversa. Guardo la gente e sorrido, in fondo non sono cambiati e forse nemmeno io, penso, più tardi scoprirò che non è così.

Arrivo al binario 21, al museo della Shoah, è qui che devo passare la giornata, accogliere le persone e gestire la “logistica”, insieme ad altri come me, nel senso che arrivano dallo stesso posto, loro non sono come me o io non sono come loro… punti di vista.

Ci spiegano cosa fare e ci presentiamo al resto dello staff, poi inizia ad arrivare la gente, oggi è la giornata della memoria e le persone arrivano a fiotti. Ascolto incuriosito il racconto di una delle guide che parla dell’indifferenza delle persone, anzi della città davanti alle deportazioni e che spiega che i deportati hanno trovato conforto solo dai carcerati, quando hanno fatto transito a S. Vittore, mentre i cittadini non li hanno mai nemmeno guardati, forse nemmeno visti.

Penso che semplicemente gli uomini capiscono la sofferenza solo se la provano…poi la dimenticano e poi che l’immagine di chi soffre rompe gli equilibri e disturba il quotidiano di chi non soffre…così stare male diventa una colpa perché porta con sé la consapevolezza del nostro abituale egoismo. Non penso sia una colpa…avere paura di stare male in fondo non lo è, e non essere disposti al sacrificio credo nemmeno.

Quello che considero una colpa è non combattere, non lottare se si ha la forza per farlo, però l’indifferenza e la disattenzione, quelle non sono colpe, sono pezzi della natura umana, legati all’istinto di conservazione.

Penso, mentre la guida parla a che cosa avrei fatto io se mi fossi trovato lì a vivere quel tempo…decido che non lo so ma che di certo non sono un codardo e che forse avrei preso tempo, ma poi alla fine avrei morso forte la mano dei prepotenti, come ho sempre fatto.

Il mio telefono suona, rispondo è un’amica, ho voglia di vederla e ho voglia di vedere anche altri, forse qualcuno verrà, forse no…ma io non lo capisco, mi innervosisco perché le persone hanno delle cose da fare, perché non abbandonano tutto e non corrono da me, in fondo io ho solo oggi e poi di nuovo nella mia cazzo di scatola…mia arrabbio e poi mi calmo…poi mi arrabbio di nuovo. Tutto il giorno così, fino alla sera finché non mi accontentano e allora respiro e ricomincio a godere del tempo.

La giornata finisce, ritorno a “casa” la sera, di nuovo calmo rifletto e capisco, inutile fingere di nulla, questi anni hanno lasciato il segno, andrà via, penso, ma non così in fretta come mi ero convinto io…oggi dentro la mia piccola libertà mi sono mosso come un bambino povero che entra in un toys e all’inizio è timido e impacciato, poi corre in mezzo alle corsie e tocca tutto, nell’idea che se non lo farà quel giorno, non avrà mai più la possibilità di farlo…perché crescere in povertà gli ha tolto l’idea di avere diritto all’infanzia.

Ecco, per me l’idea è che la libertà non è scontata così come la vita felice…tutto può finire e tutto può essere tolto…e per questo nel mio primo giorno da solo ho corso come un bambino e per questo non ho capito l’esigenza di nessuno…perché era il mio giorno di libertà, e poteva essere l’unico e poteva essere l’ultimo.

Questo è quello che fa la galera, rende la prigionia una compagna sempre presente, un’ipotesi che incombe e che determina il ritmo di come ci si muove nella vita.

Bisogna uscirne, bisogna togliersi le sbarre dalla testa oltre che da davanti all’orizzonte…adesso lo so, so che va fatto e so che lo farò anche se non so ancora bene come…

Con questa nuova consapevolezza e questo intento in testa mi rassereno e mi preparo ad affrontare la mia prossima giornata un pezzo dentro la libertà. Ma questo lo vedrò domani….