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I nostri valori

Le buone imprese – Responsabilità Sociale

Stiamo attraversando una fase inedita del nostro percorso di civilizzazione economica.

Un tempo la metrica per la misurazione del livello di successo di persone ed imprese era limitata alla capacità di generare ricchezza e benessere per sé stessi e per la ristretta cerchia delle persone vicine all’imprenditore.

Scarsamente rilevanti erano altre dimensioni di natura più etica, riferite al rispetto per l’ambiente e alla valorizzazione del contesto sociale in cui l’impresa e l’imprenditore agivano.

Si assisteva ad una cesura netta tra la sfera del profitto a tutti i costi da una parte, figlio di un paradigma economico fondato su dinamiche predatorie, su una conflittualità spietata tesa al predominio di pochi su molti, ed in ultima analisi ad una visione ristretta ed ego centrata delle ricadute che l’attività di impresa aveva sui contesti e sulle persone.

Dall’altra in aperta antitesi il mondo della filantropia, di chi metteva a disposizione tempo e risorse per dedicarsi invece alla costruzione di contesti migliori, prendendosi cura delle fragilità dei nostri sistemi sociali, dando attenzione alle storie delle persone più ai margini.

Non che la storia sia stata priva di esempi in assoluta controtendenza, con modelli ante litteram di imprenditori illuminati, da una parte autenticamente visionari nella loro capacità di raccordare la tensione al profitto personale  e dall’altra le ricadute di cui l’azione imprenditoriale era portatrice sulla cultura, sui contesti e soprattutto sulle storie delle persone.

Era sicuramente più semplice identificare modelli e paradigmi di ingaggio economico del tutto alternativi tra loro in cui era chiaro da che parte stavano i disincantati paladini del profitto ad ogni costo.

E di contro in cui era evidente la collocazione dei valorosi sostenitori di un’etica della responsabilità e dei valori anche nel fare attività di impresa.

Quella rappresentazione se da una parte aveva la pecca di essere un tantino schematica e semplificatoria, dall’altra era in grado di offrirci modelli più “puliti” autentici. 

Oggi lo scenario che abbiamo di fronte ai nostri occhi è molto più vischioso e complesso, ed è molto più complicato distinguere tra la supposta esistenza di modelli davvero alternativi di impegno in economia.

Viviamo una fase storica caratterizzata dall’egemonia del concetto di responsabilità sociale delle imprese. Una sorta di pensiero unico, diretta derivazione di elaborazioni teoriche legate al campo del marketing, che mette in relazione la reputazione di un marchio e di tutti i prodotti che ne discendono ed il suo livello di appetibilità nei confronti dei consumatori, al supposto o manifestato livello di responsabilità sociale ad esso riferibile.

L’impressione è di assistere ad un’autentica vendita in saldo dei valori di responsabilità nei confronti delle persone, dei contesti e dell’ambiente alla ricerca della migliore formula per raccontare o vendere un concetto di sostenibilità o di responsabilità che troppo spesso è del tutto sganciato dalle pratiche profonde espresse dalle aziende.

Abbiamo costruito abilmente una nuova merce, peraltro estremamente esclusiva di nome responsabilità. Un’autentica corsa a dire, dimostrare, rendere evidenti in modalità il più possibile innovative quanto importante sia l’impatto sociale generato dalla tale impresa, rispetto ad un’altra.

E per rendere evidenti questi meriti, si assiste ad un proliferare di occasioni pubbliche di eventi, di festival in cui le imprese parlano delle loro pratiche responsabili mettendosi a confronto le une con le altre, venendo tributate dei dovuti riconoscimenti per queste loro importanti scelte.

All’interno delle grandi imprese sempre più frequenti sono le unità dedicate alla trattazione di questi temi e alla formulazione di strategie e piani di azione di medio lungo periodo.

Talvolta mi capita di frequentare queste manifestazioni, perché autenticamente credo esistano tanti imprenditori, tante imprese e tante esperienze che hanno compreso il valore profondamente generativo che un paradigma più inclusivo di sviluppo economico reca con sé.

Lo devo ammettere, in queste situazioni mi sono dovuto confrontare più volte con il diabolico dubbio che talvolta si insinuava nella mia mente e che metteva in discussione quella pratica, piuttosto che quell’iniziativa specifica che davano l’idea più che dell’adesione ad un modello di impegno economico responsabile, a più o meno abili tentativi di “green washing”.

Delle pennellate di etica e di responsabilità nell’ambito di pratiche di impresa ispirate a culture che poco avevamo a che vedere con i valori di responsabilità che si stava cercando di promuovere.

Il messaggio è chiaro: ad un certo segmento di pubblico, peraltro sempre più numeroso, piacciono le imprese capaci di dimostrare la loro responsabilità sociale e la loro sostenibilità (sociale e ambientale).

Di più, non solo queste dimensioni piacciono, i sodali di certe aziende si aspettano che i loro marchi di riferimento vadano in quella direzione.

Questa supposta dimensione valoriale diventa uno dei driver che pilotano le scelte dei consumatori, al pari di altri vettori, quali il prezzo, l’esclusività, la qualità etc.. Si potrebbe aprire una voragine di riflessioni su questo aspetto ..

In questo mercato della responsabilità e della sostenibilità si pone il problema del come fare ad orientarsi, come fare a capire dove risieda la “vera” responsabilità da quella supposta, quale comportamento sia effettivamente più responsabile di altri.

Come fare per capire se dietro cosa si celi dietro alla tensione comunicativa ed all’esigenza di vendere questo nuovo prodotto immateriale di cui tutti vorremmo disporre.

Va da sé che come in tutte le cose la complessità sta nel far crescere la nostra capacità di analisi tanti dei fatti quanto delle organizzazioni, e conseguentemente di discernimento tra quello che è un approccio autenticamente responsabile e quello che invece è solo “fake”.

Sono tanti gli strumenti che ci possono venire in aiuto da questo punto di vista, tanti gli indicatori grazie ai quali è possibile acquisire elementi di conoscenza della cultura aziendale più profonda. Le narrazioni frutto delle pratiche rappresentano un bacino inesauribile da questo punto di vista.

Non è infrequente che data la particolarità del contesto in cui lavoriamo ci troviamo ad essere un lieto “pretesto” per raccontare pratiche responsabili messe in atto da imprese coraggiose che scelgono un luogo di pena come campo di valorizzazione e investimento in termini di impatto sociale.

In questo caso però la narrazione che abbiamo pensato di condividere non riguarda una pratica virtuosa, al contrario la nostra attenzione vorrebbe orientarsi su quello che crediamo possa essere un esempio di scelta capace di generare impatti negativi e costi sociali importanti.

Una scelta operata senza l’assunzione di una responsabilità rispetto alle ricadute che ne sarebbero conseguite.  

La storia del call center presente all’interno del carcere di Bollate fa riferimento a due terminali fondamentali:

Da una parte la vicenda evolutiva propria alla cooperativa sociale bee.4 e al suo fondatore Pino Cantatore

Dall’altra la parabola seguita dalla commessa di lavoro messa a disposizione dalla società telefonica H3G.

In particolare ci vorremmo focalizzare proprio sul percorso seguito da questa importante commessa di lavoro, concepita e attivata nella seconda metà degli anni 2000 con l’obiettivo di offrire agli ospiti dell’istituto un’opportunità lavorativa al servizio di una importante società presente sul mercato delle telecomunicazioni italiano.

Una sfida indubbiamente ambiziosa quella di portare all’interno di un luogo di pena un’attività lavorativa legata alla realizzazione di servizi di natura telefonica e di back office che mettevano in discussione lo stereotipo classico delle attività lavorative di impronta artigianale realizzabili all’interno di un carcere.

Una sfida che H3G decise di affrontare mettendo in gioco una commessa in grado di impiegare un numero importante di persone impattando in profondità sull’operatività delle proprie attività di servizio e sul rapporto con la propria base di clienti.

In quegli anni Bollate era un istituto di recente costruzione e messa in servizio, alla ricerca di pratiche e di opportunità che dessero spessore e consistenza all’idea di creare un carcere che attuasse davvero i principi sanciti dall’art. 27 della Costituzione.

Possiamo solo immaginare quanto importante fu per Bollate e per l’idea che di quel carcere ne avevamo il proprio management di riferimento, la possibilità di contare su un’attività lavorativa in grado di impiegare un numero variabile tra i 50 e gli 80 detenuti, potendo portare benefici diretti su un numero importante di famiglie all’esterno.

Crediamo che la scelta di quell’impresa, forse andando anche al di là di quelle che erano le proprie previsioni, abbia contribuito in modo davvero significativo alla costruzione del “modello” Bollate, un modello che era in grado di articolare armonicamente le varie componenti fondamentali implicate da un percorso di “rigenerazione” umana”. 

Il movimento di quell’azienda privata, ha indubbiamente contribuito alla definizione del “mito” di Bollate come luogo di un’esecuzione penale effettivamente votata all’inclusione sociale e al senso dei percorsi detentivi. 

Nel corso degli anni questa attività ha attraversato diverse fasi trasformative, alcune delle quali legate all’esigenza di individuare interlocutori organizzativi in grado di gestire il rapporto tra l’azienda committente e le persone ospiti dell’istituto.

Un’esperienza confermata anche all’indomani della fusione della società H3G con l’operatore telefonico Wind, per dar vita a quello che ai tempi era il principale gruppo presente sul mercato di telefonia mobile italiano.

E’ sempre il 2016 l’anno in cui questa attività incrocia il proprio destino con quello della cooperativa sociale bee.4 altre menti e con il proprio percorso di crescita all’interno del carcere di Bollate.

Sono anni in cui la commessa tende a mutare alcuni dei suoi tratti distintivi: cambiano le attività di servizio affidate, cambiano i kpi associati alle lavorazioni, i ritmi ed i volumi di lavoro affidati.

Si fa sempre di più avanti l’idea che il carcere debba essere sul piano della qualità del servizio in tutto e per tutto equiparato agli altri fornitori che fanno parte del patrimonio di collaborazioni a disposizione dell’azienda.

Assistiamo ad un vero e proprio processo di crescita e di evoluzione del modo di approcciare le attività di servizio, con sempre più attenzione ai temi della formazione degli operatori, ai temi della metrica di valutazione e di misurazione della performance di servizio.

E’ in questo quadro che si colloca la decisione di WindTRE di concludere l’esperienza avviata nel corso del 2007. Un quadro fatto di attività in crescita, di forte spinta al raggiungimento di obiettivi, traguardi e di efficienze operative.

Una decisione maturata e comunicata senza che venisse lasciato alcuno spazio alla valutazione di quello che sarebbe stato l’impatto generato: sulla continuità dei percorsi di inserimento delle persone detenute; sugli equilibri gestionali dell’impresa sociale coinvolta nella gestione della commessa.

Ma non solo. Sui delicati equilibri dell’ecosistema carcere nel suo complesso e sulla tenuta di un modello di penalità che si nutre anche e soprattutto delle opportunità di lavoro vero.

Crediamo che la conclusione di un percorso di collaborazione per quanto virtuoso e generativo possa essere stato, faccia indubbiamente parte delle prerogative di un’impresa chiamata a verificare la bontà delle proprie strategie e policy di intervento.

Allo stesso modo, crediamo che informazioni importanti sul livello di responsabilità e di consapevolezza di un’azienda possano giungerci dalle modalità che sceglie di adottare nella misura in cui è chiamata a prendere decisioni difficili come quelle di porre fine ad una progettualità avviata 15 anni fa all’interno di un carcere contribuendo a definire il perimetro identitario di quel contesto.

Questo episodio ci mette di fronte in modo brutale alle conseguenze di una decisione unilaterale che per quanto assunta legittimamente sul piano delle forme da parte dell’azienda, nella sostanza espone un intero microcosmo a forti problemi.

In situazioni simili verrebbe da chiedersi quale dovrebbe essere l’approccio da adottare da parte di chi subisce il peso di queste decisioni dovendo rimettere insieme le tessere di un mosaico di cui si è persa la forma.

Al nostro interno abbiamo dibattuto molto riguardo a quale fosse il giusto atteggiamento da tenere, oscillando dalla voglia di una rivalsa Pubblica per aver subito un trattamento ingiusto a fronte del grande impegno profuso, ad un atteggiamento più fatalista legato all’inutilità di ogni ulteriore movimento nella direzione di puntualizzare la questione del come questa decisione fosse stata assunta.

Alla fine ci siamo detti che per rispetto della nostra storia, per rispetto dell’impegno messo da parte delle persone che lavorano qui e infine per rispetto di questo luogo e di tutti gli sforzi fatti per comunicare il valore delle attività lavorative promosse in carcere, non avremmo dovuto accettare di far passare sotto silenzio questo stato di cose.

Avremmo dovuto trovare le giuste modalità per restituire uno spazio di dignità Pubblica a questa vicenda, potendo in quella sede ricomporre un possibile senso.

Da lì è partita una intensa attività di Stakeholders Engagement che aveva l’obiettivo di tentare di aprire spazi di ricomposizione del senso perduto, spazi in cui provare a rimettere un pochino a posto questa vicenda provando a prendere in considerazione quelli che sarebbero stati i costi e le conseguenze più crude legate alla semplice attuazione della decisione di interrompere la collaborazione. 

Oggi ci troviamo nel mezzo di questa attività, potendo contare sul significativo supporto ricevuto dalle Istituzioni che sono più vicine al nostro lavoro partendo proprio dalla direzione della II Casa di Reclusione di Milano Bollate, dalla città di Milano, e dalla Fondazione Cariplo.

Marco Girardello