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I nostri valori

Riflessioni sui fatti di Santa Maria Capua Vetere

“Bisogna aver visto un carcere, per comprenderne la funzione sociale e misurarne il divario rispetto agli scopi attribuiti a questo luogo”                                                                   

Piero Calamandrei

Sono giorni che le pagine dei giornali sono densamente abitate da parole, riflessioni, giudizi riguardo ai fatti di Santa Maria Capua Vetere.

Vogliamo partire da questi fatti per provare a formulare un nostro pensiero su questi avvenimenti, che indubbiamente tanto sul piano sostanziale quanto su quello simbolico rivestono un valore importante, anche perché capaci di rendere evidenti alcuni tra gli aspetti più oscuri della cultura di riferimento di chi opera nel contesto penitenziario.

Al netto dello sdegno, della rabbia mista a compatimento per il disvalore profondo che scaturisce dalle immagini che abbiamo visto e su cui non possono esserci dei distinguo o espressioni che in qualche modo tendano a mitigare o “giustificare” la loro gravità e inaccettabilità, crediamo emergano spunti interessanti.

Questi riguardano il piano organizzativo e culturale ma anche gli spunti di lavoro e di progettualità per evitare che il senso di disappunto e di generale condanna verso questo ennesimo episodio consumi il proprio potenziale riformatore nel volgere della finestra di visibilità che il sistema mediatico deciderà di riconoscergli.

Un primo spunto di approfondimento sul piano organizzativo riguarda il tema della violenza e dei suoi codici/rituali espressivi.

Senza scomodare il pensiero di Foucault in tema di penitenziario, è innegabile che questa vicenda ci metta di fronte in modo brusco e disagevole al tema della “violenza sui corpi”, quale strumento di normalizzazione delle relazioni in gioco in un contesto abitato da una dinamica di potere in cui è chiaro chi dovrebbe dettare le regole, così come dovrebbe risultare altrettanto chiaro chi dovrebbe osservarle.

Questi fatti ci mettono di fronte all’evidenza che la detenzione, il carcere, siano ancora e purtroppo misure che incidono sui corpi dei condannati.

Il confine sostanziale e simbolico tra pena giocata sul principio della libertà individuale e pena agita sulla fisicità del corpo del condannato è molto meno saldo e marcato di quello che immagineremmo.

Al di là di tutta la mole di retorica sul senso della pena e sulla rieducazione del condannato, retorica che puntualmente deve fare i conti con una cornice organizzativo amministrativa (con fatti organizzativi) da cui traspare ahinoi un modello assai distante, ci rendiamo conto che esiste un equilibrio sottile tra “pratica punitiva” agita su un principio piuttosto che su un corpo.

Ci accorgiamo che tutte le costruzioni di principio elaborate grazie all’evoluzione della nostra civiltà umana e giuridica sono messe in gioco e in discussione dalle pratiche quotidiane di quelli che, alla resa dei conti, sono in ultima analisi gli interpreti finali di quei principi e di quei passaggi evolutivi fondamentali.

In altri termini, se vogliamo comprendere più a fondo l’essenza del carcere, non possiamo non fare i conti con la dimensione delle pratiche e con la natura dei comportamenti che gli attori finali di questo “teatro” mettono in atto.

I fatti di SMCV, così come molte altre vicende all’attenzione della magistratura, al pari di episodi non emersi pubblicamente con la medesima forza, testimoniano quanto ancora e purtroppo il linguaggio della violenza faccia parte integrante della cultura di potere degli operatori chiamati istituzionalmente alla gestione del penitenziario.

Sappiamo bene quanto “il diabolico sia in grado di insinuarsi nei dettagli”, e anche qui i dettagli, quella che altri prima di noi avevamo identificato come la microfisica del potere, ci dicono qualcosa di importante riguardo alle pratiche di polizia e più in generale alle pratiche “istituzionali” legate alla gestione del penitenziario.

Solo qualche giorno fa ero tornato in contatto con i fatti del G8 di Genova grazie ad un contenuto intercettato nell’ambito di una piattaforma media. Mi colpì molto l’intreccio clandestino di relazioni e la dinamica deformante che trasformarono il lancio di una bottiglia nei confronti di una volante in giro di pattugliamento, nel pretesto necessario e sufficiente ad organizzare la mattanza occorsa alla scuola Diaz.

Un processo di sconcertante quanto inarrestabile deformazione dei fatti, di escalation istituzionale, di dinamiche di potere, di un bisogno primordiale di riaffermazione di un primato maschile, rispetto a quanto accaduto durante le manifestazioni di strada.

Un innesco originario, a cui seguirono la costruzione artefatta di supposte prove ed evidenze, la manipolazione di verbali e relazioni, l’illusione di poter edificare un castello di falsità a protezione di quella zona franca dallo stato di diritto che erano stati quei due giorni per chi finì volente o nolente tra le mani di quei rappresentanti delle istituzioni.

Mi hanno colpito i dettagli della vicenda di Genova così come mi hanno colpito i dettagli della vicenda di SMCV perché nella gestione di una situazione fortemente conflittuale le “manganellate” forse possono anche scapparci, se non altro a protezione dell’integrità fisica di chi sta operando nell’interesse dell’istituzione.

Ma non sono state tanto le manganellate in sé, quanto tutta la costruzione che c’è stata dietro, con la fabbricazione di evidenze probatorie ad hoc, l’azione violenta sistematica e organizzata consumata secondo un rituale ben preciso, ricco di simboli legati al bisogno di riaffermazione di un potere di cui era stata messa in discussione in qualche modo la paternità, la selettività dei pestati, da cui sarebbero stati risparmiati detenuti eccellenti, appartenenti alle organizzazioni criminali.

A ciò si aggiunge la gestione del post evento, con le ricostruzioni falsate di fatti, gli aggiustamenti, i plausi per essere riusciti a riaffermare il primato dell’Istituzione (sic!), fino alla negazione dell’assistenza sanitaria ai pestati per evitare che nei referti medici potessero emergere evidenze riconducibili a quello che effettivamente è poi accaduto.

Dettagli appunto, dettagli che ci mettono di fronte ad interrogativi di fondo che forse davamo per assodati.

Un punto di partenza da cui necessariamente crediamo sarebbe opportuno prendere le mosse dovrebbe quindi essere la constatazione della permanenza di piccole/grandi sacche di cultura della violenza quale strumento di regolazione delle dinamiche  tipiche  del  penitenziario.

In  altri  termini  per  quanto  sia  Istituzionalmente scomodo e poco edificante, la cultura, il linguaggio e le liturgie della violenza esistono e fanno tutt’ora parte integrante della cultura degli operatori penitenziari (di alcuni almeno).

Non riconoscere questa evidenza, significherebbe non rendersi conto di uno degli snodi problematici di fondo tipici di questo contesto.

Preso atto di questo fattore ci sarebbe da domandarsi come uscirne, ovvero attraverso quali strategie promuovere un possibile cambiamento di paradigma operativo, mettendo in atto le dovute forme di controllo a tutela delle persone in carcere e a salvaguardia della credibilità degli impegni assunti dall’Istituzione anche attraverso l’opera degli operatori seri.

Come cambiare registro quindi, sia rispetto al tema culturale che a quello più propriamente organizzativo ?

Da un punto di vista prettamente “manageriale/organizzativo” ci sentiamo di affermare che oggi i luoghi di pena vivono una fase di profonda empasse, vincolati a dinamiche ed assetti di “potere” che mettono in primo piano altri fattori a discapito della conoscenza specifica del contesto:

distanza siderale dei centri decisionali rispetto ai luoghi in cui si consumano le pratiche, a cui si accompagna uno scarso livello di conoscenza da parte di taluni decisori posti al vertice dell’ A.P. rispetto al funzionamento e alle dinamiche organizzative tipiche dei luoghi di pena;

limitata cultura gestionale/organizzativa da parte del personale dirigente dell’A.P. spesso poco consapevoli delle logiche di natura organizzativa che ispirano il funzionamento dei sistemi complessi;

profonda sindacalizzazione dei processi di decision making con conseguente spostamento del focus dalla ricerca di soluzioni efficaci legati al perseguimento di un modello/orizzonte organizzativo, alla ricerca di compromessi in grado di “accomodare” le parti in causa;

assenza di un modello gestionale di riferimento verso cui tendere e tale da fornire un’identità chiara sul piano organizzativo ad un carcere coerente con le finalità previste dall’art. 27 della Costituzione.

In questo quadro è davvero complicato immaginare cosa poter fare per migliorare la situazione, promuovendo un paradigma di penalità più moderno, in grado dapprima di scongiurare il pericolo di derive autoritarie e quindi di offrire un servizio “credibile” capace di tutelare la collettività da una parte e di offrire opportunità di riscatto alle persone vogliose di intraprendere percorsi autenticamente tesi alla costruzione di nuove prospettive di futuro dall’altra.

Il percorso evolutivo vissuto dalla normativa penitenziaria ci ha messo di fronte ad un ulteriore evidenza: le leggi non sono strumenti adeguati alla definizione di modelli organizzativi capaci di funzionare in modo coerente rispetto alle finalità previste dalle norme stesse.

In Italia la normativa penitenziaria è sicuramente adeguata e pienamente coerente agli standard internazionali e alle previsioni della Costituzione.

L’eterogeneità dei modelli organizzativi presenti nei quasi duecento istituti di pena distribuiti sul territorio nazionale crediamo sia figlia di questa miopia di natura puramente organizzativa e da limiti di natura manageriale/gestionale.

Nel corso di questi ultimi anni abbiamo visto riproporsi periodicamente fatti, situazioni che rendevano evidente la condizione di grave difficoltà gestionale in cui versava il sistema penitenziario nel suo complesso.

Altrettanto ciclicamente abbiamo fatto i conti con roboanti annunci legati a imminenti disegni di riforma che puntualmente non andavano a focalizzare gli snodi problematici più importanti individuando percorsi e soluzioni in grado di modernizzare l’A.P..

Le occasioni sono state numerose, solo per citare le più recenti, si pensi all’enfasi che ha accompagnato il “piano carceri” legato alla gestione Ionta, Ministro della Giustizia Alfano, governo Berlusconi che nelle intenzioni avrebbe dovuto risolvere alla radice il problema delle infrastrutture penitenziarie, l’edificazione di nuovi istituti, al pari dell’apertura di nuovi padiglioni, progetto che vide anche il riconoscimento di una struttura commissariale, salvo poi naufragare tradendo gli obiettivi iniziali, lasciando processi incompiuti.

Oppure si pensi alle grandi aspettative in termini di riforma ingenerate dagli Stati Generali dell’esecuzione penale, gestione Santi Consolo, Ministro della Giustizia Orlando, Governo Gentiloni, un’importante macchina partecipativa finalizzata alla formulazione di un disegno di riforma del sistema che nella sostanza non ha avuto un seguito apprezzabile.

O ancora si rivaluti la modalità gestionale adottata per la conduzione del più importante progetto di innovazione gestionale del penitenziario nel ns. paese, ovvero il bando in PPP per l’edificazione e la gestione della nuova Casa circondariale di Bolzano un cantiere che avrebbe dovuto avviarsi nel 2015 e ancora oggi è fermo.

Una delle principali ragioni a monte della profonda crisi organizzativo gestionale degli istituti di pena crediamo sia da mettere in relazione anche e soprattutto con la carenza di competenze specifiche di natura organizzativo manageriale del funzionariato chiamato ricoprire incarichi di natura decisionale.

Chi è chiamato a gestire un luogo di pena, non è messo nelle condizioni di “perseguire” un modello gestionale di riferimento, ma semplicemente è chiamato a “improvvisare”, assecondando la propria sensibilità e cercando di divincolarsi in una giungla di norme che rischiano di metterlo di fronte a gravi responsabilità sul piano personale a fronte dell’errore o a fronte del mancato rispetto di qualche norma.

La paura della sanzione, della conseguenza di un danno legato al mancato rispetto di una norma è il principale driver ispiratore delle scelte di natura politico gestionale del funzionariato a capo di queste amministrazioni tanto delicate.

Il sistema fatica a produrre qualità e risultati perché non incentiva i decisori ad assumere posizioni coraggiose, ma al contrario li spinge a trovare contromisure protettive a fronte dei tali e tanti fronti a cui si verrebbe esposti qualora di volesse tentare di percorrere una strada alternativa.

La risultante di questa situazione è la proliferazione di “stili” gestionali riconducibili al tipo di interpretazione della normativa di ciascun dirigente, con modelli di esecuzione penitenziaria che variano al variare dell’istituto di pena in cui si ha la fortuna o la sfortuna di risiedere.

E ciò contribuisce alla definizione di un sistema in cui l’accesso a diritti e opportunità è mutevole da istituto ad istituto, al variare delle capacità gestionali del personale direttivo, delle sue sensibilità.

E dire che nel corso degli anni è stato possibile in numerose occasioni confrontarsi con modelli organizzativi efficaci e con dirigenti che hanno avuto il coraggio di rischiare sperimentando nuovi assetti e nuove modalità di gestione del “penitenziario”.

Ma allora, per quale ragione non si è riusciti a trarre insegnamento da queste pratiche virtuose emerse vuoi dal talento di singoli, vuoi da condizioni di contesto specifiche, modellizzandole in modo più puntuale e rigoroso e andando quindi nella direzione di elaborare dei riferimenti verso cui orientare l’azione gestionale delle direzioni di istituto?

Perché si ha molto frequentemente la chiara impressione che il sistema viva e si alimenti di personalismi e di forme di “sopravvivenza” non avendo la forza o la voglia per fare un passo in più nella direzione di una costruzione incrementale ?

Per tornare al punto di partenza, ovvero ai fatti di SMCV e all’innesco di questa fastidiosa vicenda, nei giorni in cui la rapida evoluzione della pandemia stava diffondendo paura e incertezze tanto dentro quanto fuori dagli istituti di pena, verrebbe da farsi delle domande sul tipo di approccio che il management di quel particolare istituto ha seguito per la gestione di quella situazione critica. Sulle analisi operate prima di scegliere la strategia operativa da seguire.

Ci chiediamo se qualcuno dei decisori in linea di comando abbia dedicato tempo, impegno energie a confrontarsi con le persone detenute, spiegando loro quello che stava accadendo e ragionando rispetto alla via da seguire per gestire una situazione tanto particolare che andava fatalmente a comprimere ulteriormente gli spazi di libertà residui a disposizione delle persone.

Qualcuno si è fatto carico di considerare in modo serio le preoccupazioni, legittime, delle persone custodite all’interno di quell’istituto? Che risposte sono state date alla richiesta di accesso/disponibilità ai dispositivi di protezione individuale?

Credo che un’Amministrazione interessata all’erogazione di un servizio serio dovrebbe essere in grado di andare a fondo di queste domande, comprendendo le ragioni in termini organizzativi per cui in taluni contesti la situazione è esplosa in modo incontrollato mentre in altri sia stato possibile gestirla con attenzione alle persone ed ai loro timori.

Tutto frutto del caso? Tutto frutto di episodi non prevedibili riconducibili alla follia delle masse in tumulto?

In tutta onestà crediamo sia giunto il tempo per non accettare più motivazioni di questo genere. Esistono cause e condizioni in grado di spiegare in termini ragionevolmente precisi determinati eventi.

Esistono indicatori consistenti capaci di dirci qualcosa in termini di qualità della vita delle condizioni detentive.

Forse ci sbagliamo ma l’impressione è che negli istituti in cui si è giunti all’esplosione di forme di protesta eclatante, estrema e disperata, gli indicatori di qualità dell’”esperienza detentiva” fossero tanto bassi al punto da poter lasciar intravedere un disagio profondo. Da lì a fare un collegamento tra la diffusione di un disagio tra le persone detenute e la previsione di possibili episodi critici a fronte di situazioni mal gestite, o non gestite crediamo sia davvero breve.

Ricordo come in quei giorni drammatici e ricchi di incertezze del marzo 2020, qui a Bollate, ma immagino anche in altri istituti, numerosi furono i momenti di confronto e di dialogo tra direzione e decisori e detenuti.

Un dialogo che non testimoniava la fragilità di un’Amministrazione che “negoziava” le sue prerogative di governo con i detenuti, ma anzi che dimostrava la sua consistenza e autorevolezza nella misura in cui, riconoscendo l’eccezionalità della situazione, riteneva necessario offrire spazi ulteriori di incontro e confronto, per accogliere le preoccupazioni e per comunicare gli orientamenti operativi per il prossimo futuro.

Verrebbe da dire un’Amministrazione capace di costruire consenso autorevolmente.

Fatichiamo molto a credere che in tutti gli istituti in cui si è giunti all’insurrezione dei detenuti le condizioni detentive pre covid, pre emergenza fossero tanto positive da non destare sospetto alcuno. Che gli indicatori legati alla qualità dell’esperienza detentiva fossero tali da lasciare tutti tranquilli e sereni.

Ma certo questa domanda è mal posta, non esistendo differenze apprezzabili nelle condizioni detentive tra istituto e istituto essendo tutti i dirigenti soggetti al rispetto della legge e del regolamento penitenziario, non è vero?

Quello che accaduto a SMCV non è purtroppo un episodio sfortunato e scellerato, ma è il frutto del fallimento delle politiche gestionali di un’Amministrazione incapace di osservare i suoi punti deboli, cieca davanti ai suoi errori, indisponibile a riconoscere di aver commesso errori strategici gravi nel corso di questi anni.

Questo perchè non essendo riuscita a strutturare un modello gestionale cui riferire la complessità legata alla vita di un istituto di pena offrendo alla sua classe dirigente strumenti concreti verso cui far tendere un’azione organizzativa tesa realmente alla definizione di un carcere moderno.

L’incapacità di elaborare sistemi di valutazione del management riferiti ad obiettivi a loro volta in grado di impattare sulla qualità vita delle persone in carcere. L’adozione di indicatori legati esclusivamente all’andamento quantitativo dei fatti di autolesionismo o dei suicidi non crediamo possano rappresentare un riferimento efficace.

In questi giorni tra i vari commenti di supposti analisti ed esperti del settore abbiamo avuto modo di verificare il farsi luce degli storici argomenti scudo, le ragioni forti che da almeno venti/trent’anni sentiamo sollevare dai vertici dell’Amministrazione a fronte dei periodici  episodi  critici:  il  problema  di  fondo  sarebbe  il  sovraffollamento  e  la  scarsa consistenza degli organici dell’Amministrazione con particolare riguardo al personale di polizia.

Come dire tutto va bene, non ci riconosciamo nessun problema particolare se non che siamo pochi e che i detenuti sono troppi, ignorando fatti e numeri che ci dicono che nel quadro dei paesi afferenti al Consiglio d’Europa l’Italia è sul podio rispetto al rapporto tra custodial staff imnates, con il lusinghiero dato di un operatore di sicurezza ogni 1,8 detenuti.

Davvero non se ne può più di queste “balle spaziali”, di queste colossali mistificazioni della realtà che alla fine non fanno altro che spostare sempre su qualcun altro le responsabilità di un fallimento che è lì da vedere, che è sotto gli occhi di tutti se solo si volesse adottare uno sguardo analitico e un sistema di valutazione nemmeno troppo raffinato.

In conclusione, i fatti di SMCV sono da una parte legati a rigurgiti di una cultura violenta che ancora vive e fa proseliti all’interno degli istituti di pena tra gli operatori della sicurezza, dall’altra sono la cartina di tornasole, la prova del nove del livello di cultura organizzativo/gestionale che ispira questo comparto.

Un esempio paradigmatico di gestione efficace di un evento critico, probabilmente in linea con le procedure formali ed i protocolli operativi vigenti (ammettendo che ne esistessero di natura scritta).

Molte volte la soluzioni a problemi annosi e rispetto ai quali si fatica a trovare una soluzione convincente sono quelle che meno immagineremmo realizzabili, sono i cd. “out of the box” . Qualche anno fa il Ministero della Salute si trovò in uno stesso “cul de sac” sul piano della cultura gestionale, rispetto alla conduzione di nosocomi (che guarda caso sono anch’essi istituzioni totali adottando il metro di I. Goffman) e strutture/organizzazioni di natura sanitaria.

Se ne uscirono con la rivoluzione del trasferimento delle competenze alle Regioni e con l’introduzione delle logiche gestionali “aziendalistiche” che hanno portato all’emersione/formalizzazione degli standard di servizio, di metriche e modelli gestionali meglio attrezzati e più rigorosi.

Una rivoluzione ancora in corso certo, ma che sicuramente ha introdotto rilevanti fattori di discontinuità e di progresso laddove si è stati in grado di articolarla a competenze e capacità organizzative.

Verrebbe da portare anche l’esempio di ciò che accadde in Francia nella seconda metà degli anni ‘80 in relazione all’approvazione dell’allora futuribile progetto “13.000” con l’introduzione del modello della gestion delguee, e con tutto quello che ne è conseguito e che tutt’ora dispiega i suoi effetti ed i suoi impatti.

Qui però il discorso rischierebbe di portarci ancora più lontano ed in pochi potrebbero seguirci…

E poi si sa, dai francesi non ci piace imparare nulla, né a tavola, né su un campo di pallone, figuriamoci sul piano della sociologia organizzativa. 

Marco Girardello – Prison economy practicioner