Skip to main content
I nostri valori

Salone CSR Bocconi. Digital Divide – Accesso alla conoscenza – Percorsi di inclusione sociale

Sono ormai passati alcuni anni da quanto il concetto di digital divide fu introdotto nel dibattito pubblico dall’amministrazione Americana guidata da Bill Clinton e Al Gore. Ci trovavamo negli anni ’90 e già in quel tempo si iniziava a ragionare sui rischi legati ai livelli differenziati di accesso/fruibilità delle potenzialità/opportunità messe a disposizione da internet. Ci piace richiamare una descrizione efficace messa a disposizione da Wiki “…ad oggi, l’«Emarginato digitale» non si può più circoscrivere entro il limite di coloro che non hanno la possibilità di accedere al network, non esistendo un’infrastruttura di base oppure non possedendo gli strumenti idonei per accedervi. Conseguentemente ai veloci progressi tecnologici che si sono succeduti nel corso degli anni, la definizione di «Emarginato digitale» deve necessariamente essere ampliata fino ad abbracciare, oltre ai casi appena descritti (mancanza di infrastrutture e/o strumenti che consentano l’accesso alla rete) anche chi non è in grado di gestire le proprie attività digitali, né le tecnologie. Oggi, «Emarginato digitale» è chi non ha le conoscenze culturali e/o le abilità critiche per vivere in modo pieno e soddisfacente la propria cittadinanza digitale. Insomma, l’«Emarginato digitale» ha anche difficoltà a vivere la democrazia nell’ambito della società, sia per quanto concerne lo svolgimento dei propri doveri, che l’esercizio dei propri diritti”.

Da allora l’evoluzione della civiltà digitale ha seguito una serie di direttrici che hanno confermato l’importanza imprescindibile delle reti informatiche dove l’accesso alle opportunità è anche e soprattutto mediata dalla possibilità di fruire di buoni strumenti di connettività oltre che dalla conoscenza legata al loro utilizzo. La nostra quotidianità di cittadini è contrappuntata da strumenti e applicazioni che fanno riferimento al mondo digitale, gli esempi sono tanto numerosi quanto ampi sul piano degli ambiti che toccano. Dall’accesso ai servizi per la salute, all’istruzione, dalle politiche per il lavoro, allo stato civile, dalla previdenza sociale, alla fiscalità.

Le Amministrazioni Pubbliche al pari della società civile nel corso degli ultimi anni hanno compiuto un significativo percorso verso la digitalizzazione dei loro servizi. Il cittadino del presente e che guarda al futuro è messo nella condizione di poter accedere ai servizi erogati interagendo senza filtri con le banche dati Pubbliche, potendo “governare” da vicino le informazioni che riguardano la sua persona. Di più la gran parte delle Amministrazioni dal momento in cui offre strumenti, incentivi, opportunità a vantaggio dei cittadini lo fa promuovendo le informazioni attraverso il web e definendo percorsi di accesso a questi strumenti strettamente legati a tool digitali (portali, sistemi di data entry, accesso tramite firma digitale, PEC..) senza il ricorso ai quali non è possibile portare a compimento le proprie istanze.

Se poi volgiamo il nostro sguardo verso ciò che non è Pubblica amministrazione scopriamo che lo scenario non è per nulla dissimile anzi. Immaginiamo solo quale e quanta sia la rilevanza che l’accesso al web riveste sul piano dell’accesso all’istruzione (al di là di quanto è accaduto con la DAD in periodo pandemico), sia in termini di visibilità e di conoscenza dell’offerta presente sul mercato, sia rispetto alla fruibilità finale di queste opportunità. Allo stesso modo l’accesso alla rete sta sempre più diventando rilevante sia rispetto alla ricerca di un’occupazione, quanto alla effettiva possibilità di svolgere in tutto o in parte un lavoro a distanza. E gli esempi potrebbero essere davvero molto più numerosi.

Siamo talmente dentro a questo flusso di conoscenza e di informazioni, immersi quotidianamente da una connettività che diventa sempre più ubiqua e totalizzante nelle nostre vite, da non renderci conto di quanta strada sia stata fatta in questa direzione nel corso degli ultimi venti anni.

Avendo presente questo quadro di riferimento la stagione pandemica che stiamo attraversando, caratterizzata da tutto il corollario di limitazioni fisiche connesse alle misure di prevenzione sanitaria, ha sicuramente contribuito a produrre un’ulteriore forte accelerazione rispetto alla digitalizzazione di una serie importante di aspetti della nostra vita.

Ci stiamo spingendo così in là che è davvero tanto difficile immaginarci “cittadini al 100%” senza poter contare su questa dimensione. L’accesso al sapere digitale, l’alfabetizzazione informatica, la possibilità di fruire di connettività performante è sempre di più un presupposto per poter essere cittadini di serie A.

Questo punto è centrale rispetto alla tesi che vogliamo qui sostenere: la dimensione dell’inclusione sociale nel quadro di società altamente terziarizzate che sempre di più puntano sullo sviluppo delle reti informatiche e sulla pervasività delle banche dati (Pubbliche e private che siano) è legata a doppio filo tanto al livello di conoscenza degli strumenti informatici/digitali quanto alla possibilità di fruizione degli strumenti che mediano la relazione tra la persona ed i diritti/opportunità accessibili attraverso le reti informatiche.

Se questo assunto è vero e verificabile per la grande maggioranza dei cittadini, dovrebbe essere necessario porsi il problema di tutte quelle persone che presentano importanti gap proprio rispetto ai due ultimi presupposti citati: il livello di conoscenza degli strumenti e l’effettiva possibilità di fruizione di connettività. Esistono significativi segmenti della nostra società fortemente penalizzati da questo punto di vista se non del tutto esclusi. Va da sé che nei loro confronti questa dinamica di esclusione non fa che cristallizzare delle condizioni di esclusione su cui invero si potrebbe agire, andando ad alimentare forme di accesso differenziato alle prerogative della cittadinanza, creando veri e propri livelli differenziati: cittadini di serie B.. C.. .

Visto il tipo di lavoro che facciamo all’interno del carcere di Bollate il nostro angolo di osservazione ed il nostro focus non può che prendere in considerazione la situazione che vivono le persone detenute. Il carcere è un luogo che si fonda su piccole/grandi mistificazioni e tabù. In carcere internet e più in genere gli strumenti che offrono accesso alla connettività sono viste/vissute con grande diffidenza per non dire ostilità soprattutto dalla parte più core della struttura. La cultura securitaria che alimenta e sostiene le pratiche di polizia che governano gli spazi del “penitenziario” mal si concilia con l’apertura di zone di dialogo, solo apparentemente non governate, a vantaggio delle persone detenute.

Su questo punto di specie pochissimi sono i dati disponibili su cui poter fondare delle considerazioni “evidence based” e ancora meno sono le esperienze/sperimentazioni condotte con piglio e metodiche tese effettivamente all’individuazione di soluzioni in grado di intervenire sul DD che affligge le persone che vivono in carcere. Le poche esperienze realizzate nel corso degli ultimi anni hanno per lo più una dimensione fortemente locale e miravano a fornire risposte settoriali relativamente a singoli ambiti di intervento: l’accesso all’istruzione; favorire forme di contatto con i familiari; risolvere specifiche problematiche legate al mondo del lavoro.

Per quanto ne sappiamo non si è mai lavorato nella direzione di individuare una soluzione al problema rappresentato dall’accesso alla connettività riconoscendo alle persone detenute quantomeno alcuni spazi di scelta rispetto ad una pluralità di possibili ambiti entro cui muoversi.

Pur non essendo questa la sede dove approfondire i dati che riguardano l’efficacia di funzionamento dello “strumento” carcere prendendo come riferimento l’indicatore del tasso di recidiva, e consapevoli che l’istituzione carceraria e l’esecuzione penale più in generale intervengano spesso solo alla fine di un lungo ciclo di “fallimenti” operati dalle istituzioni di cui la società si dota per supportare ed orientare i percorsi di vita dei propri consociati, crediamo oltremodo importante porsi una domanda di fondo legata al senso dell’istituzione correzionale, un senso che dovrebbe ancora essere ancorato alla saggia formulazione dell’art. 27 co. 3 della nostra Costituzione Repubblicana: “ Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” :

  • può una sanzione che vuole autenticamente tendere verso la “rieducazione” del condannato e che riconosce far parte di questa dimensione anche il valore dell’inclusione sociale delle persone non porsi il problema del rapporto con la digitalizzazione e degli impatti che questo determina?
  • E’ possibile continuare ad alimentare pratiche securitarie fondate prevalentemente sulla non conoscenza delle effettive potenzialità di cui gli strumenti di governo e controllo delle reti informatiche sono dotati e che sarebbero in grado di assicurare il rispetto di un confini ben definiti?
  • Cosa c’è dietro a questa tanto profonda, quanto ingiustificata diffidenza verso possibilità di sperimentare protocolli di intervento in grado di riconoscere, quanto meno a porzioni della popolazione detenuta, forme crescenti di accesso alla rete per poter effettivamente non perdere il treno nei confronti di una società che viaggia a ritmi sempre più veloci?

Il tema del digital divide in carcere riveste indubbiamente un certo fascino anche perché si pone su un crinale problematico rappresentato dalla “visibilità” delle pratiche penali, una visibilità che lungi dall’essere del tutto assicurata. La persistenza di talune pratiche opache che “resistono” in una minoranza di istituti e che purtroppo fanno ancora parte di almeno frammenti della cultura organizzativa di riferimento di chi opera in questo ambito, forse rappresentano un freno da questo punto di vista. Tutto quello che va potenzialmente nella direzione di mettere in crisi la riservatezza ed in certo indice di discrezionalità che informa alcuni aspetti della vita delle carceri, temiamo sia visto con potenziale diffidenza. Ma quindi il punto è che la rete, le occasioni di connettività non vanno sviluppate perché in sé pericolose per le persone e per la società, oppure rischiose per quella parte dell’Amministrazione che fatica a rendersi pienamente visibile perché informata ad una cultura di gestione del penitenziario che andrebbe assolutamente riformata?

L’esperienza che stiamo maturando insieme alla direzione dell’istituto all’interno del carcere di Bollate va in tutt’altra direzione. La pandemia ci ha “costretto” a forzare alcuni passaggi che diversamente sarebbero costati più tempo: i video colloqui con i familiari, la formazione a distanza, colloqui di lavoro a distanza, lo smart working in cella. Numerose iniziative slegate l’una dall’altra ma tutte legate dal filo rosso della connettività e della possibilità di riconoscere spazi di fruizione a vantaggio degli ospiti dell’istituto.

Come cooperativa che opera nel settore dei servizi alle imprese e che nel corso degli anni ha sempre di più investito e sviluppato un proprio konw how e una propria esperienza in ambito digitale sentiamo questo tema del digital divide particolarmente forte anche e soprattutto perché nel nostro quotidiano abbiamo modo di confrontarci con persone che lavorano per ore e ore al giorno connesse, avendo a loro disposizione un perimetro assolutamente stretto, e abbiamo la chiara ed evidente percezione di quello che è tutto il potenziale di sviluppo che non stiamo cogliendo solo per non essere in grado di affrontare questo tema con la consistenza e la professionalità necessari.

Nel corso degli ultimi 12 mesi possiamo testimoniare in modo diretto tutta una serie di esperienza che ci fanno credere che davvero sia giunto il momento per affrontare questo tema con l’intento di trovare soluzioni complessive, avendo il coraggio di portare avanti sperimentazioni che esporrebbero l’Amministrazione ad un tasso di rischio indubbiamente molto meno rilevante di quello che accettano di correre allorquando attivano percorsi di misura alternativa nei confronti di persone su cui sussistono riserve in ordine alla loro effettiva condizione di “readyness”.

SMART WORKING

Negli ultimi diciotto mesi la concezione del lavoro è cambiata radicalmente, l’avvento del maledetto virus ci ha costretti a trovare soluzioni immediate per superare tutte le problematiche correlate all’isolamento e al distanziamento sociale.

In passato l’Italia non è mai stato un paese che si è distinto per l’utilizzo della tecnologia digitale, un po’ per cultura e un po’ per il nostro impervio territorio che impedisce lo sviluppo di infrastrutture adeguate, ciononostante, grazie alla necessità oggi possiamo toccare con mano un cambiamento sostanziale nell’utilizzo della tecnologia digitale e nelle sue applicazioni.

Le relazioni trovano sempre più spazio nella modalità video, l’istruzione è ormai integrata dalla didattica a distanza, il lavoro è diventato SMART.

Tantissime attività hanno potuto continuare quasi indisturbate grazie al supporto di internet e dell’inclusione digitale, in pochissimo tempo ci siamo abituati a un cambiamento che nella normalità sarebbe costato anni di transizione.

Poi c’è il carcere, un posto che per antonomasia deve essere isolato dalla società, dove le mura di cinta rappresentano la sicurezza, e il distacco dalla realtà la normalità.

Il lavoro in carcere più che smart è smort, le mansioni ordinarie sono definite con vezzeggiativi come spesino, scopino o altri nomignoli che riassumono la lontananza tra un percorso formativo serio e la triste realtà. Le cooperative esterne sono delle vere e proprie mosche bianche che quotidianamente si confrontano con tutte quelle difficoltà che sorgono dai famigerati concetti di sicurezza, staticità e chiusura.

Realtà come la nostra sono praticamente uniche sia per condizioni lavorative che per mentalità di crescita, formazione e sviluppo. Il semplice concetto di Call Center in carcere è già di per sé un’innovazione, figuriamoci la possibilità di svolgere un’attività di questo tipo direttamente dalle celle…

…In una delle fasi critiche della pandemia ci siamo ritrovati, a fronteggiare una vera e propria ondata di contagi. Nel giro di poche ore i protocolli di sicurezza si sono attivati e un intero reparto è stato chiuso per contenere la trasmissione del virus.

Tutto bene, se non fosse che da un momento all’altro ci siamo ritrovati con molti soci isolati nelle loro celle.

Per una Cooperativa come la nostra è imperativo mantenere degli standard elevati, l’unico modo per poter emergere in un mercato così competitivo è garantire dei servizi continuativi e di qualità.

Da qui è nata la necessità di risolvere la repentina carenza di personale qualificato per non venire meno ai nostri impegni e ai nostri obiettivi.

Nel resto del mondo molte persone isolate stavano continuando col loro lavoro in una nuova modalità che tutti ormai conosciamo benissimo: lo smart working. In un carcere però smart working significa lavorare dalla cella, e questo fino a pochissimo tempo fa era concettualmente impensabile.

Il carcere è un luogo dove la tecnologia e la digitalizzazione, per ovvie ragioni di sicurezza, sono sempre state chimere da combattere. Il semplice utilizzo di una connessione internet in ambito lavorativo suppone tutta una serie di controlli che di per sé, anche solo nella normalità sono difficoltosi. Figuriamoci in una situazione straordinaria e di emergenza come quella che stavamo vivendo.

Abbiamo rapidamente pensato a come, da un punto di vista tecnico, potevamo mettere i nostri operatori nella condizione di lavorare correttamente, con gli stessi standard qualitativi e di sicurezza ai quali siamo abituati, non è stato semplice ma trovata la soluzione, ci siamo attivati con il permesso della direzione del carcere, per allestire le postazioni nelle celle.

Al momento non ci siamo resi conto di quello che stava succedendo, semplicemente preparavamo i kit per connettere i computer e andavamo cella per cella a montare tutto: quasi come se fosse normale. Dopo poche ore però, con una semplice riflessione, abbiamo capito che eravamo i protagonisti di un cambiamento storico.

Eravamo riusciti a portare internet nelle celle detentive di un carcere, e con l’obiettivo di dare continuità ai servizi della nostra cooperativa: abbiamo cambiato la concezione di lavoro in carcere.

Questa, a mio avviso è la vera definizione di “opportunismo” ovvero la capacità di trasformare una situazione negativa in una opportunità di crescita e noi, lo dico con orgoglio, ci siamo riusciti.

Questa esperienza ci ha permesso di sperimentare una nuova modalità di lavoro raccogliendo preziosi dati correlati ai punti di forza e alle criticità che i nostri operatori hanno riscontrato nella loro nuova quotidianità detentivo-lavorativa:

  • Da un lato abbiamo la produttività che si alza, la qualità del servizio che migliora, la cella che nella normalità rappresenta un luogo di restrizione, in questa nuova modalità diventa uno spazio di comfort che ha permesso ai nostri operatori di trovare energia, tranquillità e nuovi stimoli per affrontare la giornata lavorativa.
  • Dall’altro la mancanza di vere e proprie pause, unite alla costante permanenza in cella nei pochi metri a disposizione, l’eventuale condivisione degli spazi con altri detenuti compagni di cella, ha fatto emergere delle criticità che analizzate e rielaborate ci hanno permesso di definire ed evolvere questa nuova modalità di lavoro.

Ad oggi il progetto SMART WORKING continua nella nostra cooperativa grazie al contributo di Regione Lombardia che ci permette di offrire ai nostri soci la possibilità, attraverso un progetto pilota, di continuare con questa interessante e innovativa modalità di lavoro, nel presente e speriamo sempre di più nel futuro.

DIGITAL MARKETING

Grazie alla visione innovativa di bee.4 mi è stata data la possibilità di partecipare attivamente al progetto di sviluppo aziendale che attraverso due concetti fondamentali come il Brand Awareness e la Lead Generation ci ha permesso di passare da una semplice “economia del passaparola” ad una realtà di Advertisement digitale che ad oggi ci ha permesso di crescere ed evolvere.

Il mondo Digital offre enormi opportunità di confronto e sviluppo, per una cooperativa come la nostra, poter sfruttare questo strumento significa avere la possibilità di guardare al futuro in modo diverso.

Inclusione è un termine biunivoco, il “mezzo digitale” ci permette allo stesso tempo di includere la società nel nostro quotidiano e di essere inclusi nella società attraverso il nostro lavoro.

La nostra Mission è diventata il messaggio da condividere, Il web e i social gli strumenti per farlo.

Le persone all’esterno sono fortemente condizionate dallo stereotipo televisivo del carcere, per chi non ha mai avuto a che fare con questa realtà è difficile avvicinarsi, ma se avviene il contrario, ed è il carcere che si avvicina alle persone allora tutto è più semplice. Questa tipologia di lavoro, con il suo lato Istituzionale mi ha permesso, dopo pochi contatti, di constatare che c’è molto interesse per la nostra condizione, le persone sono curiose e molti sono dell’opinione che il tempo trascorso in carcere deve essere speso in modo costruttivo, molti sono disposti a dare il loro prezioso contributo, non solo morale, affinché questo avvenga. Il Digital Marketing ci sta permettendo di condividere i nostri obbiettivi e la nostra quotidianità con tutte quelle persone che altrimenti resterebbero distanti dal carcere e dalle sue vere potenzialità.

Pensando al potenziale delle persone, non posso che pensare a me stesso: nella mia vita, in passato, ho sempre fatto altri lavori, perlopiù il carpentiere e il fabbro e quando ho sostenuto il primo colloquio di lavoro con bee4 non vedevo un computer da otto anni. Ero insicuro e impacciato, nascosto dietro la mia forte corazza da duro. Io stesso non mi sarei mai assunto per una mansione di questo tipo, eppure grazie alla fiducia e alla lungimiranza di queste persone, grazie alla loro esperienza nel saper valutare chi hanno di fronte, sono stato messo nella condizione di fare dei corsi di formazione specifici, con i quali, per la prima volta, mi sono approcciato al mondo digitale. Oggi sento di avere acquisito una nuova professionalità, ho trovato un’alternativa diversa che mi può inserire in un contesto lavorativo importante. Sono seguito da Federica Facchini una consulente esperta in Digital Marketing che con la sua esperienza, le sue competenze ed enorme pazienza: mi sta insegnando un metodo di lavoro preciso ed efficace. Mi sta svelando i trucchi del mestiere che domani mi permetteranno di gestire autonomamente questa nuova attività che mai avrei pensato di intraprendere.

Oggi mi chiedo qual è il segreto della comunicazione, qual è il modo più immediato di dare un messaggio che generi interesse, e consenso: ebbene se per qualche minuto sono riuscito a catturare la vostra attenzione, forse comincio davvero a comprenderlo…

La degna conclusione di questo racconto non può che avere a che fare con una prospettiva tesa al fare, all’innovare, all’evolvere in un percorso di crescita e di umanizzazione dei luoghi di pena. Una prospettiva che fa parte integrante dell’identità tanto di bee.4 quanto della direzione della II Casa di Reclusione di Milano, entrambi soggetti abituati alla dimensione del fare assumendosi i rischi implicati da questa attitudine.

Insieme sono partner del progetto Resilienza – Reinserimento – Connettività – Digitalizzazione che si pone l’obiettivo di realizzare questo tanto auspicato passo in avanti sul piano della sperimentazione di un protocollo evoluto per la connettività in carcere. Un progetto che ci consentirebbe di fare un’importante passo in avanti sul piano della tanto auspicata “inclusione digitale”. Un progetto fatto di formazione a distanza, di accesso ad opportunità di connettività, di costruzione partecipata degli ambiti di un progetto pilota tanto coraggioso quanto fondato su basi solide e sicure.

Neanche a dirlo siamo alla ricerca di strumenti, risorse (anche economiche), collaborazioni per poter realizzare le azioni previste da questo progetto.

Andrea – Marco