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I nostri valori

Lavoro e fioriture umane

La mancanza di riflessione profonda sul lavoro è una delle gravi lacune della teoria economica contemporanea, che ormai da decenni ha smesso di interrogarsi sulla natura del lavoro per concentrarsi unicamente sul lavoratore inteso come risorsa umana o come capitale umano che risponde, razionalmente, ad incentivi e sanzioni.

Alcune caratteristiche/tensioni dell’attuale umanesimo del lavoro della cultura occidentale.

A) l’attuale cultura al tempo stesso esalta e deprime il lavoro.

Da una parte, infatti, nessuna cultura come la nostra magnifica l’attività lavorativa, fa entrare il lavoro dappertutto, lo fa diventare la nuova “misura di tutte le cose”.

D’altra parte, nessuna cultura come la nostra (se si eccettua la cultura schiavista, che però va letta con tutt’altre categorie) usa e strumentalizza il lavoro per uno scopo sempre più “esterno” all’attività lavorativa stessa: non lo valorizza in sé ma lo asservisce al profitto.

É l’efficienza, infatti, non la bontà intrinseca dell’azione lavorativa che, sempre più, misura la qualità di un lavoratore, di una persona, di una regione, di un popolo.

B) In secondo luogo, oggi si lavora, ad un tempo, troppo e troppo poco.

Siccome il lavoro spesso riempie un vuoto antropologico crescente (di Dio, di rapporti, di capacità di silenzio e di meditazione, di preghiera), esso occupa uno spazio via via maggiore della vita nostra e dei nostri concittadini.

Inoltre stiamo assistendo ad una estensione orizzontale e superficiale del lavoro, a scapito di una perdita di profondità: si lavora tanto ma spesso senza fare esperienze pienamente umane mentre si lavora.

C) Infine, l’incrocio di queste due culture del lavoro ha prodotto l’idea, oggi dominante, che l’essere umano è in quanto lavoratore.

É il lavoro che dice chi siamo agli altri, che determina quanto e se sono pagato, che crea le nuove gerarchie sociali, che determina l’uscita e l’entrata nelle stanze del potere. Con l’effetto inevitabile che quando poi il lavoro termina o entra in crisi, con lui entra in crisi profonda anche la nostra identità come persone (non solo come lavoratori).

Lavoro, gratuità, vocazione

La persona umana non è solo un lavoratore.

L’uomo è certamente attività (intesa in senso molto ampio e non solo attività fisica o dinamismo), ma non è solo attività lavorativa. Inoltre, l’attività lavorativa è più ampia di quanto comunemente intendiamo oggi con l’espressione “lavoro”.

Ma che cos’è allora il lavoro?

Una prospettiva: lavoriamo veramente quando il destinatario della mia attività lavorativa libera è “un altro”. Non è solo un lavorare per “te” che mi sei di fronte, che vedo, e con cui ho un rapporto personale. Significa anche lavorare per “lui” o “egli” che non vedrò mai magari, e con non saprò neanche riconoscere qualora lo incontrassi, perché, magari, è quel paziente che utilizzerà il laboratorio della mia clinica, o il cliente che utilizzerà quel determinato prodotto. […]

Da questa prospettiva, allora, si può lavorare anche quando manca la libertà, la dignità, l’amore attorno noi. Lavorare diventa davvero atto redentivo per noi e per gli altri. Tutte le volte che qualcuno svolge un’attività lavorativa per amore, anche dentro un lager, in una prigione, in un contesto dove i diritti non sono riconosciuti, sta dicendo con la vita che la persona è più grande di qualsiasi struttura di morte, e sta affermando la natura altamente spirituale del lavoro umano. […]

Il lavoro è importante, ma la capacità di donarsi agli altri lo è di più: l’attività lavorativa ha un inizio, ha delle pause, ha una fine. La capacità di donarsi, poiché appartiene alla natura stessa dell’umano, fonda l’attività lavorativa, è “oltre” essa: la precede, l’accompagna e la segue.

Non possiamo e non dobbiamo sempre lavorare, ma dobbiamo e possiamo amare sempre, se vogliamo fiorire come persone, dentro e fuori i luoghi di lavoro.

Questa consapevolezza del primato dell’amore e del dono, e questo ridimensionamento del lavoro, è il migliore servizio al mondo del lavoro. Questa consapevolezza, che è individuale ma anche collettiva e istituzionale, rende il lavoro attività pienamente umana. […]

Solo una società che apprezza e stima la gratuità può apprezzare e stimare davvero il lavoro. Senza un “oltre”, senza un orizzonte umano di gratuità più largo e profondo, il lavorare non potrà mai diventare “fioritura” umana; sarà sempre o servo o padrone, mai “fratello lavoro”.

La modernità, soprattutto questi ultimi decenni di consumismo e di finanza, ha logorato il significato della parola gratuità, relegandola in spazi troppo angusti e spesso irrilevanti. La gratuità, infatti, è oggi troppo spesso associata al gratis, al gadget, allo sconto, alla mezz’ora in più al lavoro non remunerata. A qualche cosa anche di simpatico e forse utile, ma in ogni caso molto, troppo, ai margini della vera vita economica e civile.

La gratuità è un modo di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, alle cose non per usarli utilitaristicamente a nostro vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità, rispettarli e servirli.

Per il suo essere un “come” e non primariamente un “che cosa” si fa, non si tratta allora di contrapporre il dono al mercato, la gratuità al doveroso, poiché esistono, invece, delle grandi aeree di complementarietà: il contratto può, e deve, sussidiare la reciprocità del dono.

Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è buono, e non per la sua ricompensa o sanzione esterni.

Ecco perché non c’è lavoro ben fatto senza gratuità, perché la gratuità ha bisogno non di un’etica utilitaristica fondata sugli incentivi e sulle sanzioni, ma di un’etica delle virtù. […] La pur necessaria e molto importante ricompensa, monetaria o di altro tipo, che si riceve in contraccambio di quella opera, non è la motivazione del lavoro ben fatto, ma solo una dimensione, certamente importante e co-essenziale, che si pone però su di un altro piano.

Questo è, in un certo senso, un atto di reciprocità, un premio o un riconoscimento e una riconoscenza che quel lavoro è stato fatto bene, e non il “perché” del lavoro ben fatto. Per lavorare può bastare la buona motivazione del salario; ma per il lavoro ben fatto occorre anche la gratuità. […]

Ogni riforma istituzionale e legislativa del lavoro e ogni rilancio dell’occupazione non può che ripartire da una nuova fiducia nelle risorse morali e spirituali del lavoratore, che quando lavora bene prima di obbedire a incentivi e manager obbedisce a se stesso, perché se e quando si lavora male per otto ore al giorno per quarant’anni, è l’intera vita, personale, famigliare e sociale, che non funziona.

Lavorando diciamo a noi stessi e agli altri non solo che cosa facciamo, ma anche chi siamo.

E se lavoriamo male diciamo male chi siamo, a noi e agli altri, perché lavorando male, viviamo male, anche se questo lavorare male dipende dal fatto che lavoriamo nel posto sbagliato, all’interno di rapporti sbagliati, senza poter esprimere la nostra vocazione, che è anche vocazione lavorativa.

Far in modo che ogni persona trovi la sua vocazione lavorativa è un dovere morale etico di ogni comunità educativa (dalla famiglia alla scuola alla politica), perché ne va di mezzo la nostra felicità, una felicità che non può cominciare solo quando torniamo a casa la sera o nel week-end, perché se non siamo felici quando e mentre lavoriamo, non possiamo esserlo veramente e pienamente neanche quando smettiamo di lavorare.

Non è sempre possibile, per tutti e per tutta la vita, fare il lavoro che sentiamo come nostra vocazione: ma nessuno può impedirci di vivere ogni lavoro come agape, come relazione e come servizio, e così redimere e trasformare in fioritura umana ogni lavoro.

Il lavoro è troppo importante per non far di tutto per cercare di starci bene, e possibilmente felicemente, che non significa assenza di fatica e di dolore, ma presenza di senso e di sviluppo di un progetto di vita.

Il lavoro dovrebbe stare sempre al centro del patto sociale, perché è il lavoro che dà la giusta misura alle altre relazioni sociali, essendo il lavoro un bene fondativo della possibilità stessa degli altri beni economici e, in un certo senso, civili: non è sufficiente, lo sappiamo, solo avere il riconoscimento dei diritti, ma bisogna essere messi nelle condizioni soggettive di poter esercitare concretamente quei diritti in modo che diventino libertà.

*** Lavorare veramente è allora vera laicità, cioè espressione dell’essere semplicemente uomini e donne. Il lavoro è la possibilità di sentire e ascoltare il battito del cuore della propria città, del proprio tempo, della propria gente vera.

Non sempre è possibile lavorare veramente nella vita. Ma occorre vivere il non-lavoro come una indigenza, non come un privilegio o una elezione. Soffrire per non essere diventati lavoratori, e qualche volta ritrovarsi sanati dentro proprio grazie a questa sofferenza.

Un responsabile di comunità che ha lavorato veramente, o che ha sofferto per non averlo potuto fare, farà sì che i giovani che arrivano nelle comunità seguendo una vocazione possano ricevere il dono di far bene un lavoro vero. Magari per qualche anno, per poco tempo, ma un lavoro vero, non “lavoretti”.

I confini del penitenziario

Il presente ed il futuro di chi opera all’interno dei luoghi di pena promuovendo il lavoro quale strumento utile ai percorsi delle persone detenute è giocato anche e soprattutto sulla capacità di tenere vivi i legami tra dentro e fuori.

Tra la società libera costituita da persone in pieno possesso di tutte le loro prerogative decisionali ed il microcosmo penitenziario fatto dalle storie di quegli individui a cui la società ha dovuto porre limiti chiari attraverso il sistema della Giustizia.

Un rapporto che trova un suo punto centrale nella tematizzazione Pubblica della questione del senso del lavoro in carcere, sia dal punto di vista delle persone detenute, che da quello delle imprese potenzialmente beneficiarie dei servizi provenienti da dentro.

Il lavoro in carcere rappresenta da sempre la pietra angolare attorno a cui ruota ogni progetto di riforma del sistema penitenziario. L’idea per cui il carcere oltre ad essere un luogo deputato all’esecuzione di una condanna possa anche trasformarsi in uno spazio/dimensione in grado di offrire opportunità e potenzialità in ambito lavorativo è ancora ben lungi dal far parte dell’immaginario comune.

Il rapporto tra carcere e sistema produttivo ha vissuto stagioni di grande apertura e reciproca contaminazione, la storia da questo punto di vista né è autorevole testimone.

La riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 e l’equiparazione tra lavoro penitenziario e lavoro esterno dal punto di vista della disciplina applicata, ha indubbiamente segnato un raffreddamento di questa relazione. Con l’introduzione della legge Smuraglia nel 2000 il sistema del lavoro in carcere alle dipendenze di soggetti privati ha ritrovato nuove e più solide fondamenta, mettendo a disposizione di chi fa impresa incentivi in grado di rendere più appetibile l’approccio nei confronti dell’intra moenia.

Se è vero che è esistita una fase storica in cui il carcere ha ricoperto un ruolo chiaro e di un certo rilievo rispetto al sistema produttivo, è anche vero che nel corso del tempo questo suo “posizionamento” è andato via via sfumando lasciando spazio alle immagini a tinte fosche che identificano questo luogo. 

La II Casa di Reclusione di Milano Bollate rappresenta indubbiamente un unicum sul territorio nazionale, un luogo in cui, i dettami dell’ordinamento penitenziario e dell’art. 27 della Costituzione trovano applicazione quotidiana alimentando un paradigma di esecuzione penale fondato sulla responsabilità del condannato e sulla sua capacità di essere protagonista di un percorso di riabilitazione. 

Il carcere di Bollate nel corso degli anni ha saputo costruirsi l’immagine di luogo simbolo di ciò che di positivo, sorprendente e innovativo è possibile realizzare/sviluppare all’interno di un luogo di pena, anche e soprattutto da un punto di vista lavorativo.

Numerose solo le testimonianze di eccellenza che giungono proprio da qui, da questo luogo di pena capace di mettere in discussione lo stereotipo classico che vorrebbe vincolare la propria immagine a mediocrità, grigiore e scarsa cura. 

E’ proprio nel carcere di Bollate che nasce e si sviluppa l’esperienza di bee.4 e delle sue attività al servizio del mondo delle imprese.

Un’esperienza fatta di aziende che colgono la sfida rappresentata dall’affidamento di servizi che implicano il possesso di una professionalità specifica ad un’impresa sociale in carcere, declinando questa collaborazione in termini di qualità, efficienza, competitività e sostenibilità come si farebbe con qualsiasi altri operatori di mercato.

Un’esperienza fatta di persone detenute impegnate a fondo per valorizzare la loro “seconda” occasione, capace di impattare in modo assolutamente significativo sull’ecologia del carcere di Bollate oltre che sulle loro storie personali e famigliari. 

Esperienze che hanno bisogno di fare i conti con una questione di visibilità e di considerazione, tanto più importante e decisiva, quanto più radicati e diffusi sono gli stereotipi che il carcere è in grado di portarsi con sé sul piano dei simboli e delle rappresentazioni, contribuendo a rendere più difficile il percorso verso l’emersione di una sempre maggiore credibilità di chi prova a fare impresa in questo ambito.

Ed è proprio sul tema di questa violazione simbolica dei confini del penitenziario per offrire nuovi spunti di conoscenza che vorremmo soffermarci provando a far luce su queste zone d’ombra.

Vogliamo contribuire a rendere più tangibile la vera essenza dei luoghi di pena e tutto il potenziale generativo che può da loro liberarsi sia in termini umani che professionali, mettendo a disposizione chiavi interpretative più adeguate, tanto alle persone quanto alle Istituzioni.

Marco Girardello