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Storie di vita

Io, ex ergastolano, vi racconto Bollate il carcere che cambia la vita

Oggi raccontiamo una storia di imprenditoria diversa, una storia stra-ordinaria, una storia che unisce tante vite che sembravano perse, ma che con aiuto, impegno e lavoro si sono ricostruite e hanno iniziato un nuovo percorso.

Parliamo di impresa sociale con bee.4 altre menti, la cooperativa all’interno del Carcere di Bollate che ha come scopo quello di avvicinare il percorso di detenzione alla finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione, un progetto di reinserimento lavorativo e sociale.

Ci accompagna in questo viaggio uno dei soci fondatori della Cooperativa bee.4 altre menti, di cui, per ragioni di privacy, non riporteremo il nome.

Questo è l’articolo pubblicato su glistatigenerali.

1. Partiamo raccontando la tua storia, da San Vittore come detenuto a Bollate come fondatore di un’impresa sociale.

Ho vissuto il carcere da detenuto per molti anni e ho avuto modo di osservarlo attentamente dall’interno, vivendolo quotidianamente.

Quello che manca all’interno del carcere milanese di San Vittore, come in tutte le carceri italiane, è la possibilità di lavorare. Vuol dire avere la possibilità di non stare 20 ore chiuso in una cella di quattro metri quadrati, spesso sovraffollata, con letti a castello, dove l’unica possibilità di uscire è rappresentata solo da due ore d’aria al mattino e due al pomeriggio.

Nasce l’esigenza di instaurare relazioni con persone diverse dai compagni di cella, i cui discorsi si ripetono quotidianamente su problematiche comuni: reati commessi, lamentele sull’avvocato che ti ha fatto condannare, la moglie che ti ha abbandonato, concetti che si ripetono nell’esperienza detentiva.

Frequentare altre persone ti dà la possibilità  di avere rapporti e generare relazioni con persone differenti, oltre a ricevere un contributo economico, che allevia un altro peso che prova il detenuto, oltre alla mancanza degli affetti, cioè quello di contribuire al sostegno della famiglia, che magari dipendeva solamente dal tuo reddito.

Questo era il mio sogno, dare un lavoro ai ragazzi detenuti che potessero poi, con lo stipendio, contribuire anche parzialmente al mantenimento della famiglia, oltre a provvedere ad auto mantenersi in carcere. Esiste oggi per un detenuto la possibilità di dedicarsi a lavori definiti “domestici” come pulire i pavimenti, consegnare la spesa, lavorare in cucina o nelle caserme per il cambio di coperte e lenzuola, compiti assegnati dall’amministrazione penitenziaria e retribuiti per circa quattro/cinquecento euro mese.

Questo solamente per un periodo di tre mesi, quando possibile e non sempre ripetibile, il tutto dipende dalla dimensione del carcere e dal numero dei detenuti che ne fanno parte. Nel carcere di San Vittore, che ospita circa 2000 persone, più o meno 300/400 persone per raggio, la turnazione diventa complicata, un detenuto, che ne fa domanda, rischia di essere addirittura scarcerato prima che arrivi il suo turno.

Nel nostro Paese esistono principalmente due tipi di carceri: la casa di reclusione e la casa circondariale.

La casa circondariale come il carcere di San Vittore ospita il detenuto appena arrestato che attraversa la prima fase dedicata all’interrogatorio, alle indagini e al processo. La casa di reclusione ospita invece i detenuti che sono stati condannati in via definitiva, è il caso del carcere di Bollate.

La differenza nel nostro caso non è banale, in quanto investire sul detenuto condannato in via definitiva significa far lavorare una persona per il tempo necessario a scontare la propria pena, avendo la possibilità di investire su una formazione adeguata necessaria ad avviarlo all’attività lavorativa.

Quindi esistono maggiori possibilità per il nostro progetto di essere più performante in una casa di reclusione piuttosto che in una casa circondariale, dove esiste invece una turnazione elevata.

Per accedere ai corsi di alfabetizzazione, che sostituiscono la scuola elementare per proseguire alla scuola media, servono un numero minimo di partecipanti per poi proseguire alla formazione superiore sino ad arrivare all’università. Tutto questo a Bollate funziona bene. Esistono sezioni per la formazione tecnica e alberghiera. Tutto questo è possibile se la condanna del detenuto è di una certa durata.

2. Come ti è venuta l’idea e come hai fatto a dargli corpo. Ne avrai dovuto parlare con qualcuno, immagino, per verificare la fattibilità.

Nella mia permanenza a San Vittore, c’era un Direttore, oggi in pensione, che aveva una mentalità aperta in questo senso, con una visione più ampia non limitata solamente a dirigere una pur complicata struttura. C’era allora una sezione penale composta da un centinaio di persone con condanna definitiva.

Grazie a questo gruppo e mettendo a disposizione le mie competenze informatiche di allora, aiutati dalla collaborazione di software house esterne, abbiamo avuto la possibilità di sviluppare progetti.

Li è nato il nome “Altre Menti” scritto fuori dal nostro laboratorio per identificare che in quel luogo i detenuti avevano la possibilità di fare altro e di non vivere passivamente il periodo di detenzione.

3. Come si arriva a compiere un percorso di questo tipo: forza personale, incontri che si fanno lungo la strada, modello rieducativo?

Trovarmi detenuto mi ha fatto pensare a quanto detto prima. Quando sono uscito da San Vittore per essere trasferito a Bollate, sono riuscito a creare insieme ad altri, da solo non ci sarei mai riuscito, una realtà che si chiama “bee.4 Altre Menti”, partita con due detenuti in uno scantinato, grazie all’art. 21 dell’ordinamento penitenziario.

La norma permette al detenuto, dopo un periodo di pena scontata che si differenzia a seconda della gravità dei reati che ha commesso, di uscire dal carcere per motivi di lavoro per qualche ora al giorno. Questo beneficio viene proposto dall’amministrazione che valuta la condotta del detenuto fino a ritenerlo meritevole di affrontare un esperienza di lavoro all’esterno del carcere, per proseguire il percorso iniziato all’interno.

Il detenuto può uscire rispettando gli orari indicati dall’azienda per cui lavora, sia in entrata sia in uscita, compreso il percorso per raggiungere il posto di lavoro che deve essere preventivamente definito, come definiti devono essere i mezzi per raggiungerlo e dove si svolge la pausa pranzo. L’amministrazione penitenziaria ha facoltà di effettuare i controlli nel luogo di lavoro, così come il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare qualsiasi assenza ingiustificata del detenuto. Il non rispetto di queste regole fa immediatamente decadere il beneficio dell’art. 21.

Non possono accedere a questo beneficio, così come ad altri, i detenuti per reati di maggior allarme sociale quali sequestro di persona, associazione mafiosa e terrorismo.

4. Voglio portarti ancora a raccontare meglio come è nato tutto. Come fa il detenuto che ha avuto un’idea a metterla in pratica?

Nei primi anni ottanta dopo la legge Gozzini le prime attività che si pensava di aprire in carcere erano principalmente di carattere manuale, carpenterie, falegnamerie, con l’aggravante che la maggior parte dell’utensileria poteva rappresentare un concreto problema in termini di sicurezza. L’avvento del metal detector all’interno dei luoghi di lavoro in carcere ha risolto la questione riducendo il rischio che il detenuto lavoratore potesse portare utensili non consentiti nella sezione o nella cella di cui faceva parte.

Lo stesso principio è stato applicato alla mia idea di attività, cioè la creazione di un call center. Qui sono stati necessariamente limitati gli accessi alla rete internet, per evitare che il detenuto avesse relazioni con l’esterno, fatti salvi gli accessi per lo svolgimento del proprio lavoro.

A quel tempo a San Vittore potevi compilare un modello chiamato comunemente “domandina” mi sembra di ricordare si chiamasse modello 393, dove il detenuto aveva la possibilità di fare qualsiasi richiesta, come l’acquisto di qualche bene per l’igiene personale o una scatola di cioccolatini per i figli presenti ad un futuro colloquio.

Con lo stesso modulo potevi chiedere un incontro con il direttore del carcere ed è quello che feci allora. Ho avuto la fortuna, ottenuto l’incontro di trovarmi di fronte un direttore con una mentalità aperta. Devi pensare che il carcere di San Vittore, nel contesto del sistema carcerario, ha per Milano e non solo una storia particolare, un luogo con una forte visibilità dovuta alla varietà dei suoi detenuti, spaziando da personalità dello spettacolo come Mike Buongiorno, ai terroristi delle brigate rosse, alle rivolte interne.

Era un carcere che faceva notizia e destava un certo interesse da parte della città.

A quel tempo l’allora presidente dell’Inter Massimo Moratti entrava di sovente in carcere, per regalare magliette della squadra, palloni, scarpini, qualche volta accompagnato da qualche giocatore della prima squadra. Il calcio resta il più grande sport popolare e veniva, con tutti i limiti del caso, praticato anche dai detenuti. Il direttore, dialogando con il presidente Moratti e l’allora rappresentante di Telecom Marco Tronchetti Provera, sposò la mia idea di formare nel 2003 il primo call center al mondo all’interno di un carcere.

L’attività con Telecom era quella del servizio del “12” diventato in seguito “1254” numero che si componeva a quei tempi per le informazioni sul sevizio abbonati.

Il servizio svolto da circa 80 detenuti è durato per 5-6 anni, sostituito poi da internet.  Il concatenarsi di questi eventi favorevoli ha fatto si che la cosa nascesse e personalmente mi sono fatto una grande esperienza avendo gestito direttamente il progetto operativo.

Oggi bee4 è una Cooperativa Sociale Onlus, formata da alcuni collaboratori io sono l’unico che ha avuto un’esperienza detentiva, gli altri sono persone che hanno operato nel sociale o semplicemente persone imprenditori capaci di stare sul mercato, perché l’attività della cooperativa e quella di produrre reddito attraverso le attività svolte e per farlo devi essere capace e competitivo.

Noi abbiamo un duplice obbiettivo: produrre reddito, reinvestirlo, pagando gli stipendi dei lavoratori detenuti e non, tentando di reinserirli nella società.

Siamo 120 persone 90 detenuti e 30 persone che nulla hanno a che vedere con il carcere. Quando assumiamo qualcuno di esterno, l’unica discriminante è che il lavoratore sia disposto a svolgere la propria attività in carcere.

5. Il Carcere di Bollate è considerato un esempio virtuoso, “un modello da estendere a tutte le carceri d’Italia”, aveva detto Laura Boldrini durante una sua visita nel 2017. Puoi riassumerci con i numeri e con qualche esempio concreto, in cosa consiste questo modello?

A San Vittore non potevo usufruire dell’art. 21 perché mancava la sezione adatta, cosa che è stata possibile invece nel carcere di Bollate dove sono stato poi trasferito. Qui le norme di entrata e di uscita, grazie ai benefici dell’art. 21, erano meno stringenti e la gestione del mondo del lavoro all’interno decisamente più fluida. Avendo la possibilità di lavorare anche all’esterno, ho fatto nascere la Cooperativa cercando poi di allargarla, pur mantenendo l’attività di call center all’interno con il progetto Telecom anch’esso trasferito a Bollate.

L’obiettivo era anche quello di creare un luogo di lavoro esterno al carcere che ospitasse i detenuti che potevano uscire grazie all’art.21.

Il carcere di Bollate rispetto alle altre carceri italiane, risulta essere per estensione il più grande in Europa, non per numero di detenuti. In questo grande spazio è stata creata un’area industriale dedicata a diverse lavorazioni, dove in una parte svolgiamo la nostra attività. Non in tutte le carceri esiste la stessa possibilità, gli stessi spazi.

A Bollate il detenuto ha la possibilità di recarsi in autonomia nel luogo dove svolge le diverse attività, l’importante è che sia provvisto di una tessera di riconoscimento visibile, per recarsi nelle diverse aree all’interno del carcere stesso, questo senza essere accompagnato dagli agenti.

Il detenuto ha la responsabilità però di recarsi solamente nei luoghi a lui consentiti, che sono identificati dalla tessera di riconoscimento. Questo significa avere una maggiore agilità negli spostamenti, che non richiedono l’accompagnamento della polizia penitenziaria e quindi un risparmio dei tempi che il detenuto può dedicare al lavoro. Le prerogative principali sono rappresentate dai generosi spazi da dedicare alle attività lavorative e una maggiore facilità di spostamento all’interno grazie a quella che viene definita “sorveglianza dinamica”: telecamere e pass.

Ci sono altre situazioni quasi analoghe, come il nuovo  carcere di Torino dove esiste addirittura una torrefazione, o come Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo, dove si dedicano all’enogastronomia e ancora il carcere di Cremona o di Verona dove la cooperativa interna produce dolci o la Banda Biscotti che produce dolci a Verbania.

Bee.4 insieme ad altre cooperative che operano con persone con problemi di giustizia, con il supporto del Comune di Milano, ha creato un consorzio che si chiama VialedeiMille a Milano, con lo scopo di raggruppare tutti i prodotti che nascono da queste iniziative e venderle proponendo la prison economy.

Tra le eccellenze vendute in Consorzio c’è una cooperativa di Palermo che, nel carcere dell’Ucciardone, viene addirittura prodotta la pasta di grano duro, qui sono riusciti, in un luogo come Palermo, a portare la città all’interno del carcere presentando il progetto alla società civile palermitana. Potrei continuare con altri esempi ma non voglio dilungarmi.

Oggi quindi non esiste più il detenuto che costruisce le barchette con i fiammiferi come una volta, ma ha modo di cimentarsi in attività volte ad imparare un mestiere, che probabilmente gli sarà di aiuto una volta scontata la pena.

Tutte le attività lavorative svolte all’interno del carcere di Bollate fanno parte di quel percorso di reinserimento nella società una volta scontata la pena.

Il dato importante è rappresentato dalla recidiva, cioè la possibilità che il detenuto in libertà si macchi nuovamente di reati. Il dato nazionale è pari al 75% a Bollate non supera il 30%. Il concetto è di fare tutto il possibile perché il condannato riesca attraverso questo percorso di apertura, che il mondo lavorativo può dare, a non tornare a delinquere.

Se il detenuto è lasciato a se stesso all’interno della propria cella, può nella maggior parte dei casi solo peggiorare. Pensiamo ai molti piccoli delinquenti, arrestati ad esempio per spaccio di piccole dosi, che incontrano grandi spacciatori che per loro diventano esempi da seguire una volta in libertà.

6. Siete specializzati in 3 aree di lavoro: attività di business process e outsourcing, attività di assemblaggio e controllo qualità, rigenerazione delle macchine del caffè e dei distributori automatici. Come sono strutturate le tre aree, quali sono i luoghi di lavoro e chi sono i detenuti che ci lavorano?

Abbiamo iniziato le attività di call center offrendo servizi alle aziende di energia elettrica e gas, dove svolgiamo servizi per il cliente, non ci occupiamo di commercializzazione, non vendiamo nulla, facciamo data entry, assistenza al telefono, curiamo il post vendita.

Nel settore delle telecomunicazioni lavoriamo per Wind3, siamo impegnati su diversi fronti per nuove possibili commesse nel settore sanitario. Oggi in questa attività sono impegnate 60 persone detenute ed 8 esterni.

L’altra attività è l’officina dedicata alla riparazione delle macchine da caffè a cialde e capsule, oltre alle macchine da bar e ai grandi distributori automatici del settore vending. Qui sono impiegate 9 persone detenute e tre tecnici esperti esterni che sovrintendono ad ogni reparto.

Questo, a mio avviso, è il lavoro più nobile dove serve una grande preparazione che verrà ripagata in termini di esperienza, che si trasformerà in una competenza molto utile una volta usciti dal carcere, per essere reinseriti nel mondo del lavoro. Il mercato richiede giovani e bravi tecnici.

La terza area è dedicata al controllo qualità per un’azienda che produce anelli di tenuta in gomma plastica, con un anima in metallo, destinate al settore dell’auto. Facciamo anche controllo qualità per le cuffie prodotte per Brembo, destinate anch’esse alle automobili.

Questa attività viene svolta da 20 detenute nella parte del carcere femminile, aiutate da un tecnico esterno.

E’ concreta la crescita professionale del detenuto che si dedica all’attività lavorativa, come la crescita della sua autostima.

7. Come fa un detenuto a candidarsi per un lavoro e quanto viene pagato?

Noi siamo tenuti a pubblicare un bando. Si tratta di un documento affisso dalla direzione in tutte le sezioni del carcere, dove chiediamo, per una particolare attività, di procedere alla selezione con alcune caratteristiche.

Per l’attività di call center è richiesta la lingua italiana, un minimo di esperienza sull’uso del computer e l’attitudine al lavoro di squadra.

Per l’officina vengono richieste precedenti esperienze di carattere tecnico o comunque manuale o artigianale. Il detenuto interessato compila la famosa domandina e successivamente procediamo alla selezione definitiva, dopo un approfondito colloquio.

Il detenuto guadagna dai 1000/1100€ fino a 1300€ per chi svolge il lavoro nel call center, soprattutto anche al sabato e alla domenica, naturalmente considerato straordinario.

Il detenuto ha la possibilità di acquistare beni di prima necessità, per l’igiene personale ed altri pochi articoli necessari alla vita quotidiana ma con un limite di spesa mensile che è di 500€. Lo stipendio viene erogato da noi sul conto corrente dell’amministrazione penitenziaria che provvede, unitamente alla copia del cedolino, a trasferire sul conto dell’interessato la somma dovuta.

150€ vengono trattenuti dall’amministrazione per la copertura del costo del detenuto stesso, inteso come vitto e alloggio, in questo caso il costo del  detenuto lavoratore con condanna definitiva non grava sulla società. La restante somma dei loro stipendi solitamente viene inviata alla famiglia facendo richiesta all’amministrazione penitenziaria.

8. Con la pandemia anche voi avete dovuto lavorare in smartworking, cosa significa questo in un Carcere?

L’attività di call center, ha obbligato i nostri competitor esterni ad utilizzare lo smatrworking risolvendo la continuità dei servizi. Il Covid ha creato problemi di contagio anche in carcere con l’obbligo di quarantene, ci siamo trovati così in forze ridotte.

Per soddisfare le richieste dei clienti e gli impegni contrattuali insieme all’amministrazione penitenziaria che ci ha dato la possibilità di installare ripetitori wi-fi criptati, così il detenuto in quarantena ha potuto svolgere comunque il proprio lavoro dalla propria cella, con un computer portatile.

Abbiamo sradicato un tabù: la connettività in cella, nel rispetto dei limiti di sicurezza prevista.

Questo in un futuro prossimo potrebbe aprire a nuovi scenari, permettendo, per esempio ai detenuti che hanno affetti lontani, di avere colloqui via web con i propri cari, come poter proseguire studi on line.

9. Da poco avete aperto un profilo su LinkedIn, su cui state facendo un lavoro di comunicazione eccezionale: fate parlare i lavoratori, mettendo in luce la loro storia di adesso, non il loro passato, ma il cambiamento che li prepara al futuro. Quanto è importante costruire una nuova narrazione intorno ai detenuti e al carcere?

Molti parlano del sistema carcere ma pochi lo conoscono, il nostro miglior biglietto da visita è quello di portare le persone in carcere, perché si rendano conto con i loro occhi e si stupiscano. Io non credo che i preconcetti siano tali da non prendere in considerazione il carcere come risorsa da parte della società civile, ma proprio la scarsa conoscenza.

Spesso il carcere viene immaginato come un luogo diverso o comunque limitato, rispetto a quello che è diventato grazie alle attività lavorative al suo interno. Per cui tutti gli strumenti, compresi i social, ci danno la possibilità di diffondere un concetto positivo del carcere, che non è solo punitivo, un luogo sì di costrizione della propria libertà, ma se concepito in maniera virtuosa, può essere utile per una formazione scolastica o professionale, con l’obiettivo di recuperare molte vite che si sono perse. I social sono un formidabile strumento per far conoscere il mondo del carcere e promuovere l’attività della cooperativa.