The world is a dangerous place to live; not because of the people who are evil, but because of the people who don’t do anything about it.
Il mondo è un posto pericoloso; non a causa di quelli che compiono azioni malvagie, ma per quelli che osservano senza fare nulla.
(Albert Einstein)
Questa pandemia ci ha permesso ancora una volta di più di scoprire quale e quanto potenziale resiliente e adattativo dimora nell’essere umano, nella sua spinta vitale, nella sua intelligenza intuitiva.
La capacità di risposta di cui siamo capaci di fronte alle avversità, sa stupirci al punto tale da domandarci se siano proprio le fatiche e le asperità l’innesco necessario a far scoccare la scintilla dell’innovazione.
Ci piace partire da questa considerazione ampia e inclusiva capace di abbracciare tutto il nostro genere per raccontare una storia accaduta all’interno della II Casa di Reclusione di Milano a Bollate in questo tempo di pandemia.
Il carcere di Bollate rappresenta senza tema di smentita un punto di riferimento a livello nazionale sul piano della diffusione di pratiche sociali virtuose in ambito penitenziario. Molte sperimentazioni sono partite proprio da qui, aprendo strade che fino a quel momento parevano impossibili da percorrere.
I numeri prodotti da questo luogo sul piano dell’accesso ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario testimoniano meglio di ogni altra considerazione l’orientamento gestionale di questo Istituto.
Ma non solo: il sistema delle commissioni quale strumento partecipativo in grado di coinvolgere nei processi decisionali che interessano la vita del carcere anche le persone in esecuzione penale, responsabilizzandole; la strutturale e rilevante presenza della società civile negli svariati aspetti che riguardano la vita di questa articolata comunità di persone; la rilevanza dell’offerta di opportunità per impegnare in termini positivi il tempo della detenzione..
Bollate è uno di quei luoghi in cui anche la parola lavoro, assume un significato dai contorni più definiti rispetto ad altri contesti penitenziari.
Qui il lavoro è qualcosa di tangibile, concreto, in grado di interessare un numero importante di persone.
La storia che vogliamo raccontare ha a che fare proprio con il tema del lavoro in carcere.
Il 2020 è stato un anno estremamente difficile anche e soprattutto per quel sparuto gruppo di imprese impegnate nel portare lavoro all’interno degli Istituti di pena.
Per queste, alle difficoltà che la gestione della pandemia ha portato in generale, si sono aggiunte tutte le misure di prevenzione sanitaria adottate dall’Amministrazione Penitenziaria a tutela della salute della comunità di persone che abitano i luoghi di esecuzione penale.
Nei casi più drammatici queste misure sono giunte fino alla chiusura completa degli istituti rispetto all’esterno, accompagnata dalla conseguente interruzione delle attività lavorative.
In un contesto caratterizzato dall’assenza di grandi punti di riferimento, in cui l’incertezza e la fragilità sembrano essere le dimensioni identitarie prevalenti di queste forme di imprenditorialità (non necessariamente sociale), un simile colpo potrebbe decretare lo spartiacque tra il proseguimento e l’interruzione della loro esistenza.
In questo quadro, Bollate, ancora una volta verrebbe da dire, fornisce una testimonianza in contro tendenza, offrendo, in uno dei momenti più difficili della storia recente del nostro paese, una nuova prospettiva mai praticata prima d’ora.
Una prospettiva che oltre a risolvere un problema gestionale rilevante in questa fase di emergenza sanitaria, apre verso possibili scenari futuri dall’impatto rivoluzionario sulla vita dei luoghi di pena.
Il carcere di Bollate è la sede di un efficiente e strutturato contact center, al servizio di importanti imprese del settore energia e telecomunicazioni. Quotidianamente circa 60 ospiti dell’istituto sono impegnati in variegate attività di assistenza ai clienti, coordinati da un team di professionisti.
La tappa al contact center di bee.4 fa parte dei punti forti di ogni visita istituzionale a questo istituto.
Ed in effetti a pensarci bene l’immagine di un gruppo tanto numeroso di persone all’interno di un carcere che lavorano in modo coordinato, occupandosi di attività complesse e delicate, rispettando scrupolosamente KPI al pari di ogni altro operatore di questo settore desta la sua impressione.
L’iconografia classica e stereotipata dei luoghi di pena ci ha infatti educato ad immagini differenti dei luoghi di pena e delle persone che li abitano. La pandemia ha naturalmente inciso anche sulle attività del call center, imponendo il rispetto di rigidi protocolli di prevenzione, distanze di sicurezza, adozione di dispositivi di protezione individuale, misurazione della temperatura, sanificazione quotidiana dei luoghi di lavoro, etc….
Nel corso degli anni uno dei principali punti di forza riconosciuti a questa attività è stato la possibilità di assicurare l’erogazione di servizi senza soluzione di continuità, potendo contare sempre su personale qualificato disponibile a turnarsi con l’obiettivo di venire in contro ad una delle preoccupazioni più sentite per le aziende che offrono attività di “customer care”.
Il carcere, si sa, non conosce problemi da questo punto di vista, essendo in tutto e per tutto paradigma di istituzione totale. Un punto di forza mai messo in discussione in precedenza, ma di cui la pandemia è riuscita ad evidenziare la vulnerabilità, specie a seguito della rapida diffusione delle misure di isolamento fiduciario presso le stanze di pernottamento delle persone che avevamo avuto contatti con soggetti risultati positivi al virus.
Nel breve volgere di una manciata di giorni, quello che era stato uno degli aspetti qualificanti dell’attività del contact center era divenuto improvvisamente una fragilità su cui pareva impossibile trovare una contromisura efficace in tempi stretti.
Fortunatamente verrebbe da dire, non tutti i mali vengono per nuocere, e proprio le situazioni potenzialmente più difficili da affrontare offrono spunti per l’emersione di soluzioni inattese.
Così è stato anche in questa occasione.
Da questa condizione apparentemente senza vie di uscita, in cui le persone venivano isolate all’interno delle loro stanze di pernottamento non potendo più recarsi sul luogo di lavoro, senza alcuna possibilità alternativa, è scaturita l’idea di mutare il paradigma della prestazione lavorativa, anche qui in carcere.
Se le persone non potevano più spostarsi per assicurare i servizi resi nei confronti dei clienti, allora doveva essere il lavoro a rendersi disponibile presso il luogo in cui le persone si trovavano costrette a restare, portando le lavorazioni tipiche del contact center presso le stanze di pernottamento, infrangendo uno dei tabù più sacri del mondo carcerario: l’inviolabilità della cella.
Da qui si è articolato un lavoro di ricerca per capire quale opzione tecnologica poteva consentire di realizzare uno smartworking in cella del tutto sicuro, che consentisse di raggiungere l’obiettivo senza creare di converso problemi di gestione al carcere.
Un lavoro che oltre a fare i conti con la dimensione della sicurezza della connettività proposta, doveva anche confrontarsi con la necessità di giungere in tempi molto brevi all’individuazione di una via efficace.
Il mese di novembre è stato dedicato alla ricerca e al testing di svariate soluzioni, fino a quando si è giunti all’individuazione del bandolo della matassa, trovando una modalità sicura di trasmissione dei dati, capace di vincere anche le leggi della fisica che stabiliscono l’esistenza di un pessimo rapporto tra il mondo dei campi/segnali magnetici ed il mondo del ferro.
L’ultima parte di questo lavoro ha riguardato la dimensione normativa, ovvero l’elaborazione di un protocollo operativo che disegnasse il perimetro dell’operatività di questo strumento di recovery eccezionale.
Determinante per il raggiungimento del risultato è stato il contributo della direzione dalla II Casa di Reclusione di Milano e del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria.
Hanno infatti saputo riconoscere la delicatezza della fase che stavano attraversando i servizi offerti da parte del contact center e si sono resi disponibili a percorrere una strada fino ad ora mai percorsa prima in un luogo di pena.
Dalla seconda metà del mese di dicembre a Bollate alcuni dipendenti della cooperativa sociale bee.4 altre menti lavorano in modalità smart dalla loro cella, contribuendo insieme ai loro colleghi autorizzati a recarsi presso il contact center ad assicurare la continuità e la professionalità dei servizi resi per conto dei clienti.
Ogni mattino i professionisti della cooperativa consegnano alle persone in isolamento fiduciario i personal computer necessari a svolgere l’attività e alla sera fanno il giro per recuperare gli apparati.
Che altro aggiungere?
Per chi sa di lavoro in carcere e più in generale di carcere, questa innovazione ha il sapore della rivoluzione.
All’iniziale incredulità tanto da parte dello staff dell’Amministrazione Penitenziaria, quanto delle persone detenute, sta subentrando la consapevolezza accompagnata da fierezza, che solo in determinati contesti sia possibile spostare l’asticella del limite un pochino più in là e Bollate è proprio uno di questi luoghi.
“Siamo sulla Luna assistente, non mi era mai capitato prima d’ora di vedere una cosa del genere e dire che di galera ne ho fatta nella vita.. siamo sulla Luna…
Solo a Bollate è possibile fare una cosa del genere”
Non siamo sulla Luna ragazzo .. ma appunto siamo a Bollate .. questo è il luogo giusto per sperimentare cose del genere”
(Scampolo di una conversazione al piano tra un’ospite dell’istituto e un’agente di polizia penitenziaria)